Mi sono svegliato oggi con in mente un commento che qualcuno ha fatto di recente a uno degli esercizi che postiamo ogni domenica, definendoli “esercizi per casalinghe in menopausa.’
Intendeva, suppongo, esercizi all’acqua di rose, troppo deboli per poter produrre un risultato.
Esiste un punto di vista per cui essere casalinga, o essere in menopausa, o addirittura entrambe le cose, sarebbe un ostacolo allo stato di presenza.
Questo non è il punto di vista della nostra scuola. La ‘macchina’ è macchina. Giovane, vecchio, uomo, donna, atletico, debole, malato, sano sono categorie ininfluenti, che riguardano la ‘macchina’ che uno abita, non il proprio stato. Il veicolo, non l’identità. Sarebbe come dire che possono essere presenti soltanto i possessori di un’automobile al di sopra di una certa cilindrata.
Ogni esercizio è come un ventilatore, che rimuove la polvere e fa affiorare i nostri aspetti più meccanici. Se ci viene dato un esercizio, la prima cosa da fare è osservare quali sono le nostre obiezioni a quello, perché lì stanno i nostri ostacoli al risveglio. “Troppo facile, troppo difficile, non ha senso, sarebbe meglio farlo in quest’altro modo, io sì lo faccio ma a modo mio, con queste varianti…” Basterebbe osservare la cosa che non vogliamo fare, o non vogliamo fare a quel modo, per vedere una delle nostre caratteristiche in azione. Ne ho già scritto: il pacchetto di obiezioni che un esercizio solleva fa parte dell’esercizio stesso.
Ogni esercizio può sembrare troppo facile - finché non lo si prova.
Solitamente, nella maggior parte dei casi ci si dimentica di farlo. Questo è già un indice di difficoltà.
Poi, quando ci si accinge a provarci, sorgono immediatamente obiezioni. Lo troviamo insensato, oppure lo vogliamo modificare. Ecco un altro indice di difficoltà, dato che fare un esercizio significa farlo senza modifiche.
Infine, molto raramente si riesce a farlo con regolarità fino alla fine del periodo designato. Dopo aver provato qualche volta, magari trovandolo ‘troppo facile’, ci si dimentica si proseguire o si decide di non proseguire, fallendo quindi l’esercizio stesso.
Gli esercizi che il nostro maestro predispone per gli studenti della nostra scuola (e che non sono necessariamente quelli che noi proponiamo nel gruppo Facebook) sono tutti estremamente semplici. Sono organizzati in modo che nessuno si debba sentire eroe per avercela fatta. Il perché lo ha spiegato lui stesso: per evitare che si metta la propria identità nella riuscita o meno dell’esercizio.
È, come sempre, molto semplice. Se mi sento particolarmente bravo perché sono riuscito a fare qualcosa, sono identificato. Questa è una forma elementare di sonno. Se mi giudico per aver fallito, è autodeprecazione, ancora una forma di sonno. Se non voglio fare un esercizio, sono vittima di ‘io opposti’, altra forma base del sonno. Se credo che il lavoro su di sé sia una situazione romantica in cui un eroe supera delle battaglie fisicamente evidenti contro creature demoniache in carne ed ossa, sono in immaginazione.
Ricordo bene di quando leggevo - uno per tutti - Carlos Castaneda, che mi intratteneva molto con le sue visioni, persone che volano, cambi di forma, bozzoli colorati che avvolgono un essere umano e così via. Suppongo che ci sia stato un momento della mia vita in cui ho creduto che il risveglio sarebbe stato fatto di questa percezione istintiva della realtà.
Attenzione, però, questa è la cosa che ci tengo oggi a dire: credo che qualsiasi aspetto miracoloso, in qualsiasi forma si presenti, esteriore o interiore, in un contesto come quello di Facebook debba necessariamente essere taciuto, poiché prima di parlare dei miracoli è bene essersi ripuliti gli occhi dal velo del sonno.
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