Come si lavora sull’essere?
- Il Ricordo di Sé
- 31 gen
- Tempo di lettura: 4 min

Vedo stamattina un messaggio di Barbara Mancini che chiede: “Come si lavora sull’essere”?
Come abbiamo detto tante volte, Essere è contrapposto a Conoscenza. Posso sapere che non devo esprimere emozioni negative, ma se l’automobile mi taglia la strada e io maledico il conducente, evidentemente il mio essere non è commisurato alla mia conoscenza. L’informazione che dice che non dovrei esprimere emozioni negative è confinata a una piccolissima parte del mio centro intellettuale e non ha pervaso ogni mia cellula, non è diventata carne e sangue.
Questo è il caso più frequente. Sappiamo tante cose, troppe; e non siamo in grado di vivere secondo le informazioni che possediamo. E questo è soltanto il male minore: quello più grave è che, continuando ad accumulare informazioni senza essere in grado di viverle, queste si deformeranno fino a diventare il contrario di ciò che dovrebbero essere. La nostra comprensione si avvelena e persino le informazioni ‘giuste’ entrano in noi come una sostanza tossica. Dopo qualche tempo che, pur sapendo che non dovrei esprimere emozioni negative, lo faccio ugualmente, comincerò ad esempio ad inventare ogni sorta di eccezioni e di ragioni per cui in certi casi è legittimo, anzi necessario, farlo. In questo modo il filo rosso che mi collega a una possibile evoluzione si spezza: non importa quanti progressi posso aver fatto finora, perdo, forse per sempre, la possibilità di evolvere.
La risposta su come si lavora sull’essere prende risvolti diversi a seconda del livello di sviluppo di una persona.
Inizialmente, il lavoro sull’essere prevede un abbattimento delle menzogne che abbiamo su noi stessi. Gli esercizi, anche (o soprattutto) quelli semplici semplici, cominciano a mostrarci un ritratto di noi stessi molto meno lusinghiero di quello che ci siamo formati in una vita di menzogne. L’osservazione di sé è già, in qualche modo, lavoro sull’essere, in quanto una persona che abbia realmente visto quello che Gurdjieff definì “L’orrore della situazione”, difficilmente tornerà indietro sui suoi passi.
Questa (spesso dolorosa) realizzazione segna un passaggio da un lavoro, diciamo così, amatoriale, a uno più serio. Prima di allora si può essere curiosi di certe idee, si può pensare che sarebbe bello svilupparsi, diminuire certi difetti. Ma quando si comprende che senza presenza, letteralmente non esistiamo, allora il lavoro spirituale cessa di essere un interesse tra tanti, e diventa la priorità. Quando niente per me è più importante del risveglio - carriera, relazioni, tempo libero, denaro, felicità, guarigione, conoscenza o altro - allora ho realizzato quello che il mio maestro moltissimo tempo definì “Mettere la propria vita nel lavoro”, contrapposto a “Mettere il lavoro nella propria vita.”
A quel punto comincia un lungo percorso che porterà alla formazione di un Maggiordomo.
In questa fase si rimuovono gli ostacoli che ci separano dallo stato di Presenza. A questo livello di sviluppo il fattore che più porta a un innalzamento dell’essere è la sofferenza - soprattutto nelle situazioni senza via d’uscita che ci appaiono intollerabili. Si opera in noi una sorta di fusione alchemica. Nell’esempio della non espressione delle emozioni negative, impariamo a non esprimerle quando ci tagliano la strada, quando altri hanno più potere di noi, quando hanno torto e noi ragione, quando apparentemente ci guadagneremmo a esprimerle, e così via. (Si vede bene che, senza un preventivo “Mettere la propria vita nel lavoro”, ognuno di questi esempi si concluderebbe con un gigantesco: Ma chi me lo fa fare - troppo difficile, troppo lungo, troppo penoso - e di nuovo, non porterebbe a nessun cambiamento).
La sofferenza prima accettata, poi abbracciata, infine trasformata (in presenza) è il grande fattore dello sviluppo spirituale. Grazie alla sofferenza i cambiamenti non sono più superficiali, ma penetrano in ogni angolino del nostro essere; si viene costretti a cambiare. Possiamo misurare la crescita del nostro livello di essere quando verifichiamo che certe situazioni che un tempo ci avrebbero fatto impazzire, ora sono sopportabili o, addirittura, non ci danno fastidio affatto. Ecco, questa è la misura in cui il nostro essere è cambiato.
Fin qui, lavoro sulla macchina. Ora comincia il vero lavoro sull’essere. Essere è essere presenti. Ancora una volta, se non siamo presenti, non esistiamo, e questa non è una metafora o un’iperbole: è l’affermazione di una realtà.
Essere presenti, essere, significa percepire il mondo dai Centri Superiori. A questo livello si lavora sull’essere (è qui che la parola ‘lavoro’ diventa improvvisamente inadatta), semplicemente essendo testimoni di ciò che accade, e ricordando che noi non siamo nessuno dei tanti io che ci assalgono - ad esempio nel momento in cui l’automobile ci taglia la strada, o che veniamo ingiustamente licenziati - ma siamo uno spazio di percezione pura che si sovrappone alla macchina e testimonia tutto ciò: non preferisce, non condanna, non disputa, ma osserva sia ‘Automobilista’ che ‘Capoufficio’ che ‘Sergio’ da uno stesso punto equidistante, curioso e neutrale come un etologo che osserva il comportamento di un gruppo di animali.
Ricordo di sé significa ricordare che Io sono i Centri Superiori, non la macchina; e, per ricordarlo, bisogna prima saperlo, avere avuto dei momenti in cui questa osservazione è stata registrata e, successivamente, si è fusa. Per questo motivo lo stato di Presenza ha un sapore di ‘ritorno a casa’: perché è, letteralmente, il ritorno a uno stato che abbiamo abitato, magari tante volte, magari a lungo, e che improvvisamente ricordiamo poiché ritorniamo ad esso. Possiamo essere a casa sempre più spesso, per periodi sempre più lunghi, finché, un giorno, questo stato non diventerà permanente. E anche allora quello sarà soltanto un inizio, che segna il momento in cui cominciamo a vivere con gli occhi aperti. Gli occhi dell’anima, non quelli fisici.
È uno stato semplice, semplicissimo, che tuttavia si appoggia sul lungo e complicato lavoro descritto in precedenza. Si lavora sull’essere con sincerità, coraggio, umiltà, continuità, disciplina, apertura al cambiamento, disponibilità ad abbandonare zavorre, semplicità, amore per la bellezza, un sesto senso per la verità, karma, fortuna e aiuto esterno.
Allego un passo di Ouspensky che mi è capitato sotto agli occhi l’altro giorno e ho avuto l’impulso di fotografare. Ora so perché ho avuto questo impulso.
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