Ancora sui respingenti
- Il Ricordo di Sé
- 24 set
- Tempo di lettura: 4 min

Continuo le note sui respingenti iniziate la settimana scorsa, poiché un paio di giorni fa mi è capitato di osservare qualcosa. Ero in cucina e mi dirigevo al lavandino per lavare i piatti e qualcuno ha aperto il frigorifero, bloccando il mio procedere. Bloccandolo, intendiamoci, per un secondo o due: il tempo di aprire la porta, prendere qualcosa e richiuderlo.
Ho notato che istantaneamente la mia mano si è sollevata e ha cominciato a grattarmi la testa. Questo è un respingente, esattamente uguale allo sbadiglio del mio gatto che ho descritto venerdì scorso. La macchina si tiene occupata con qualcosa, poiché deve aspettare un secondo o due in più rispetto a quello che si attendeva.
Perché?
Perché mi sto grattando la testa? L’ho compreso bene in quei due secondi. Una parte di me non vuole riconoscere che sono costretto ad attendere, che sono impotente e in balia di un evento esterno, seppur piccolo e brevissimo. È come se avessi detto: “Non sono fermo perché qualcuno mi blocca, sono fermo perché ho qualcosa da fare, mi devo grattare.
Spero che questa osservazione non appaia troppo minuziosa e maniacale. Lo steso meccanismo di “Non lo faccio peché mi costringono, ma perché lo voglio io” si può estendere a molto altro.
Grattarsi, sbadigliare, a volte dire una parola, iniziare a fischiettare, magari iniziare un discorso (Il famoso: “Stai cercando di cambiare argomento”), sono in genere respingenti.
I respingenti sono più frequenti e profondi di quanto non crediamo. Non voglio scendere in dettagli che potrebbero far nascere discussioni di tipo politico ma, sempre due giorni fa, ho visto un’intervista a una persona, una ragazza quieta e dolce, che diceva con grande noncuranza di sapere con certezza che la sua nazione si espanderà enormemente, occupando lo spazio che ora è occupato da altre quattro o cinque nazioni.
“E cosa ne sarà di quelle popolazioni che ora vivono lì?”, ha domandato l’intervistatore.
“Mah, non lo so, vedremo, qualcosa accadrà. Ma sono certa che quelle terre saranno nostre.”
Un comune respingente che ha permesso massacri nella storia umana è la disumanizzazione dell’altro. “Sono animali.” L’altro è sporco, stupido, cattivo, inquietante; o diverso in qualunque modo, reale o inventato.
Similmente, nell’atichità, uno schiavo non era veramente una persona. Soltanto pensandolo diverso si poteva giustificare che fosse schiavo. Mi trovo in India in questo momento, e posso osservare di persona che le caste sono ancora qualcosa di reale e vivo nel tessuto sociale, e ci sono individui che non toccherebbero mai un oggetto toccato da certi altri. Il processo inverso è quello che fa risvegliare alcuni al fatto che gli animali (esseri dotati di anima, come dice il nome), soffrono, e quindi da oggi sarò vegetariano.
Come vedete molti comportamenti verso la realta esterna si basano su “È come me”, oppure “Non è come me.” Entrambi questi io tendono ad essere estremamente soggettivi.
È difficile, e pesante, ricordare che l’universo è costruito come un mattatoio, dove ciascuno mangia ed è mangiato. È uno di quei pensieri difficili che solitamente respingiamo.
Ricordo durante un viaggio di lavoro in Cina un mio collega esclamare ingenuamente e con entusiasmo: “Mi piacete moltissimo voi che avete gli occhi così piccoli!”
Questo ha suscitato una reazione enorme e scandalizzata nei colleghi cinesi: “Gli occhi piccoli noi? Ma quando mai?”
“Il mio collega allora, cercando di togliersi dall’impaccio, ha cercato la via del ragionamento logico. “Ma secondo voi esistono popolazioni con occhi più piccoli di altre?”
“Certamente. Ma noi non siamo certo tra quelle.”
“E mi puoi fare un esempio di popolo con gli occhi piccoli?”
“I coreani.” E immediatamente mi sono immaginato una simile risposta da parte dei coreani che sostengono che ad avere gli occhi piccoli siano, che so, i birmani; e via dicendo ad infinitum.
Altri esempi di respingenti che accomunano tutti sono il dimenticare quanto siamo piccoli e insignificanti, salvo incontrare un cielo stellato in una notte estiva che ce lo ricorda; oppure il fatto che moriremo.
A proposito di “È come me” ieri ho avuto un piccolo episodio di riconoscimento che mi ha commosso.
Stavo bevendo un caffè in un bar all’aperto. Qui in India ci sono molti cani randagi, alcuni messi piuttosto male. Da qualche giorno sono attraversato dall’io “Sono come me, poveretti, hanno fame” (Mentre in passato l’io prevalente era: “Sono pericolosi, se li lascio avvicinare mi mordono e chissà quale malattia mi trasmettono).
C’era questo cane che mi guardava con occhi tristi da cane, così di tanto in tanto gli lanciavo dei pezzetti di biscotto.
Arriva un corvo, anche lui evidentemente interessato al possibile pranzetto. Si avvicina a balzelli, tiro un pezzetto anche a lui. Ma il cane si impone con la sua maggiore stazza e se lo mangia lui. Il corvo, allora, fa qualcosa di straordinario: mi guarda dritto negli occhi, dice il suo classico CRA! E, simultaneamente, fa un piccolo balzo laterale in direzione della strada.
Il messaggio era inequivocabile: “Butta il biscotto da questa parte, così il cane non ci arriva.” Così ho fatto, l’uccello è volato via col suo snack, e io sono rimasto col centro emozionale acceso da questa creatura così creativa, ingegnosa e altamente comunicativa.
È legittimo per la mente trovare sia le differenze tra le cose, sia la loro somiglianza e, forse, identità. Ma trovare somiglianze ci porta più vicini alla verità, alla scoperta di ‘leggi’ che governano fenomeni a prima vista diversi. La quarta via ci insegna che possiamo dire “È come me” di un altro essere umano, di un animale, di una cellula, di una molecola, di un sistema solare, di una galassia. E, rovesciando i termini, e pensando “Io sono come quello”, impareremo a vederci più oggettivamente.








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