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Immagine del redattoreIl Ricordo di Sé

Due domande a Gurdjieff


Quando gli fu chiesto: “Quali sono i metodi dell’Istituto?” Gurdjieff rispose che questi erano soggettivi, ovvero dipendenti dalle caratteristiche di ciascun individuo, e che si poteva considerare soltanto una regola generale obbligata: l’osservazione di sé.


Alla domanda: “In che senso viene detto che se non si è morti non si può rinascere?” rispose che tutte le religioni parlano di morte durante la vita sulla terra. La morte deve giungere prima che ci sia rinascita. Ma cosa deve morire? La falsa fiducia nella propria conoscenza, amore di sé ed egoismo.


Queste poche righe di risposta a quella che credo fosse un’intervista giornalistica - quindi qualcosa di abbastanza superficiale ed esterno alla profondità dell’insegnamento - sono già piene di tanti aspetti sui quali si incrostano pregiudizi che incontro ogni giorno, da non saper da dove cominciare nel commentarle.


Partiamo dal fatto che i metodi sono soggettivi, adattati all’individuo. Aggiungo da parte mia che sono anche adattati alla natura del maestro - ad esempio al suo centro di gravità meccanico, alle sue abilità specifiche - e sono inoltre adattati agli studenti nel loro insieme, in quanto influenzati dalla cultura e dall’epoca in cui il maestro si viene a trovare. Le macchine umane che si trovavano a vivere nella Parigi del 1920 avevano altre difficoltà, altre forme di sonno rispetto a quelle che vivevano nel 600 Avanti Cristo nell’India del Nord, o nel 2023 a Shanghai. Un corollario di questa idea è che seguire strettamente e letteralmente gli esercizi che Gurdjieff dava ai propri studenti, pur essendo questi certamente utili, forse non è il miglior uso del suo insegnamento, poiché oggi siamo macchine in parte differenti da quelle che lui aveva davanti in vita.


Passiamo al fatto che l’osservazione di sé è il primo passo, ed è un passaggio obbligato.


‘Osservazione di sé’ significa molte cose: osservare non è né difendere né giudicare negativamente - ma registrare neutralmente. Non è fatta di pensiero e teoria, ma di sguardo.


Poi ci sono gli interminabili equivoci che la parola sé si porta dietro. In realtà una definizione più esatta sarebbe ‘osservazione della macchina’, dato che tutto ciò che possiamo osservare è ‘macchina’. In altre parole, come abbiamo scritto in diversi post, se possiamo osservare qualcosa siamo certi di non essere quella cosa, che essa è esterna a quello che in questa pagina ci siamo abituati a chiamare Sé, con l’iniziale maiuscola.

All’inizio, e per molti anni, nemmeno la parte che osserva è il Sé: si tratta di un pezzetto della macchina che ne osserva un altro pezzetto, ‘esso’ che osserva ‘esso’, non io che osservo me stesso. Sarà proprio l’osservazione a chiarirci senza ombra di dubbio questa semplice verità.

Per quelli che resistono ad osservare, un giorno al posto di osservazione ci sarà il Sé, la nostra vera identità.


Parliamo poi del ‘morire alla fiducia nella propria conoscenza’.


Il messaggio è semplice. Non devo fidarmi di quello che conosco, (non per coltivare il dubbio fine a se stesso, ma nella consapevolezza, venuta dall’osservazione, che ciò che ho imparato è avvenuto nel sonno).


Qui la parola chiave è ‘propria’. Sono le mie idee che devo mettere in discussione, non quelle degli altri, e particolarmente non quelle degli altri che non la pensano come me: quello è al contrario il modo certo per rimanere quello che sono e cioè meccanico e addormentato.


Quali sono le cinque opinioni sulla vita e sulla realtà a cui tengo di più? Ecco, quelle, a un certo punto e inevitabilmente, saranno parte del bagaglio da abbandonare se ho desiderio di risvegliarmi.

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