In un altro post ho parlato dell’ossessione per il lieto fine. La mia essenza, per esempio, ricerca sistematicamente il finale positivo, nei film, nei libri, nei fatti di cronaca, nella vita di tutti i giorni. Vuole trovare soluzioni, ha bisogno di pensare che le cose come le persone possano essere migliori.
In questo periodo, più che mai, questo è fonte di attrito. Osservo la macchina respingere, andare in autocommiserazione. E provo a separarmi dagli io, sospendendo il giudizio.
Leggevo la storia di un uomo che ha vissuto una grande tragedia e ha devoluto la propria vita a raccontare questa sua storia perché qualcosa possa cambiare.
Ho scelto di non entrare in dettagli sul libro in questione per non distrarre le regine dal punto che vorrei toccare qui.
Quest’uomo ha trascorso anni a raccontare la sua storia, rivivendo il dolore, affrontando sfide e ostacoli, così come incontrando affetto, supporto e gratitudine.
A un certo punto, però, si è reso conto che il suo sforzo potrebbe non portare a nulla, che potrebbe essere tutto inutile. E allora? - si chiede. Ne vale comunque la pena? Rimane uno scopo a cui dedicare un’intera vita?
Poi, dice, ha compreso che per lui non c’è alternativa, che questa è l’unica cosa che abbia senso fare. E che, se a seguito del suo racconto, anche solo una persona avrà cambiato idea o avrà compreso qualcosa di nuovo, ne sarà valsa la pena.
Usando i termini del sistema, potremmo dire che, se siamo identificati con la macchina, qualunque sforzo, qualunque lotta ci sembrerà avere senso solo in funzione dei suoi risultati.
Ma appena il nostro sguardo si alza e la Presenza penetra, ci rendiamo conto che quello sforzo esiste e ha senso solo nel momento.
In verità, tutto, non solo lo sforzo, esiste e ha senso solo nel momento. E quando siamo nel momento, anche lo sforzo smette di essere uno sforzo, perché smette di essere definito dal punto di vista della macchina.
Le cose sono e non potrebbero essere diversamente. Sono lì per noi e il nostro esserci è l’unica variabile possibile.
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