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Immagine del redattoreIl Ricordo di Sé

Emozioni negative.

In uno scambio recente nei commenti a un post con Marina Delr stato menzionato che idrogeni fini necessari per raggiungere stati superiori di coscienza vengono bruciati e sprecati con l'espressione di emozioni negative. Ne abbiamo scritto molto in questi anni, ogni tanto riproponiamo qualcosa, perché al riguardo siamo sempre dei principianti. La non espressione e la trasformazione delle emozioni negative in presenza è uno dei capisaldi della quarta via. Gli stati superiori di coscienza, o i centri superiori funzionano con idrogeni fini che non circolano facilmente in noi nella nostra vita quotidiana, persi come siamo nel secondo stato di coscienza, nell'immaginazione e nell'identificazione. O comunque, se circolano, passano per lo più inosservati. La macchina umana, parafrasando Gurdjieff, è una fabbrica che ha il potenziale di produrre 100, ma così come siamo produciamo 10, perché non siamo capaci ad utilizzare il carburante giusto per produrre di più. Le emozioni negative non sono un male per se stesse (nella nostra scuola proviamo a non esprimere anche per preservare lo spazio tra studenti, per proteggere l'essenza che ne può venire ferita), Ouspensky scrisse che se non ci fossero bisognerebbe inventarle. Sono, da un certo punto di vista, generatrici di energia. Quando accade qualcosa che ci fa arrabbiare, una persona che ci offende, o un guidatore che ci taglia la strada, in quel momento sentiamo la pressione dentro di noi che sale, e che ci spinge a rilasciare quella energia così difficile da sostenere. E così perdiamo gli idrogeni fini necessari per il funzionamento dei centri superiori. Fortunatamente non dobbiamo aspettare forti esplosioni di rabbia, anche piccoli fastidi, a cui la macchina si ribella, sono materiale di lavoro da non sottovalutare. In realtà se guardiamo bene in ogni momento c'è una tensione, un fastidio, che viene da un centro o una parte di un centro. Il sé inferiore non sopporta la realtà. Non importa da quanto tempo siamo nel lavoro, la trasformazione è sempre difficile, perché se non abbiamo già uno stato di presenza nel momento in cui arriva uno shock che ci fa salire l'energia, o la rilasciamo esprimendola, o la sopprimiamo (momentaneamente, uscirà in qualche altro modo).Per questo il lavoro, anche se non facile, è molto semplice: ricordarsi di sé adesso, rinnovando lo sforzo il momento successivo. E ancora quello dopo. Cosa trasformiamo in cosa? Trasformare può sembrare un verbo che richiede di essere attivi (devo non esprimere, devo cambiare 'io').In realtà, invece di essere prima forza nel processo, c'è forse una triade differente in gioco. Per me il percorso è quello di portare tutto il ricordo di sé che riesco a portare, provare così a separarmi dall'identificazione, e permettere a quell'energia, a volte difficile da sopportare, di entrare dall'esterno. Più che un fare è permettere che qualcosa dall'esterno agisca su di me, che prendo così meno spazio nella scena. Questo include il non volere che le cose siano diverse: se osservo auto commiserazione, o un'incapacità a penetrare il presente, non giudicare quello che vedo. Ogni volta che nel lavoro il senso di 'Io' viene prima, è il sé inferiore che agisce. Sento che non siamo noi a trasformare. Siamo noi a essere trasformati da quell'energia.

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