Farci caso
- Il Ricordo di Sé
- 31 gen
- Tempo di lettura: 5 min

Una recente domanda di Barbara Mancini a commento di un esercizio, chiedeva: “Come fate ad accorgervi che siete in uno stato di presenza?”
Da una parte, questo è il classico tipo di domanda che fa sorgere reazioni come: “Ah, magari fossi in grado di comunicare una cosa del genere…” Pensaci: se qualcuno chiedesse, davvero non sapendo: “Come fai ad accorgerti di aver fame, di aver mangiato abbastanza, di essere stanco, di avere un prurito, di essere indignato, di amare qualcuno?”, sarebbe piuttosto difficile rispondere, pur conoscendo questi stati con certezza. Ma proviamoci.
La verità è che si può credere di essere presenti senza esserlo, così come essere presenti e non sapere di esserlo.
Una difficoltà nel parlare di questi argomenti è la nostra frammentazione in molti io - e il nostro continuo dimenticarcene. Chi è presente, chi si accorge? Questo vale sempre, per ogni stato.
All’inizio del mio percorso di scuola ho speso anni ad osservare le varie parti di me (i 72 credi di cui parla Hafiz): riconoscerle, memorizzarle, osservare il funzionamento, vedere l’enorme flusso di io che ciascuna di queste parti produce. Questo mi ha abituato a considerare i comportamenti della mia macchina come una macchina: qui c’è il carburatore sporco di olio, là c’è la batteria scarica, ecco perché l’impianto elettrico non funziona… a ricordare, insomma, che quando si dice io al singolare, si sbaglia sempre.
Leggo questa domanda in due modi: il primo può essere parafrasato così: “Avete una definizione certa dello stato di presenza, così che possa sapere una volta per tutte se ciò che provo in un determinato momento lo è o meno?”
Definizione, no. Le migliori le ha fornite Ouspensky, un vero maestro nel fornire nozioni ‘digeribili’ dal centro intellettuale riguardo ad argomenti così sfuggenti. Ma anche le più acute definizioni non possono che girare intorno al punto, dato che una definizione intellettuale è un prodotto del centro intellettuale, uno dei 72 credi, una parte della macchina: il servosterzo, diciamo.
Si tratta piuttosto di acquisire il sapore dell’esperienza. Vi sarà capitato di vedere un neonato o un cucciolo nel momento in cui si addormentano. Molto facilmente, il neonato seduto sul letto o il cucciolo ancora in piedi avranno la testa che crolla più volte, cadranno e si rialzeranno ancora e ancora, prima che un colpo di sonno più forte degli altri li stenda definitivamente. Non hanno ancora imparato che quello stato è il sonno, e che in quei casi è meglio abbandonarsi ad esso.
Occorre un certo numero di esperienze ripetute perché io mi accorga che il sonno è sonno e segna l’ora di andare a dormire.
Per la presenza avviene qualcosa di simile: a un certo punto lo stato che provo viene a combaciare con definizioni che ho letto e sentito, e a quel punto il centro intellettuale ratifica il suo verdetto: “Caro mio, ora sei presente.”
Le prime volte, ora sei presente può soltanto venir pronunciato in casi estremi e inequivocabili. Spesso queste prime sconvolgenti epifanie mi sono state descritte dalle persone che le hanno avute come esperienze fuori dal corpo, ‘io’ che mi osservo da dietro e dall’alto mentre preparo da mangiare, mentre cammino in mezzo alla natura; oppure come percezioni molto intense e vivide, paragonabili a stati indotti da droghe. Qualsiasi stato, insomma, che sia così marcatamente diverso da quelli abituali da non poter passare sotto silenzio.
Anche qui sorge subito un dubbio: reale o immaginario? Esperienza mistica o pazzia?
Da questo circolo vizioso di incertezza non si uscirà mai, se le proprie (dubbie) esperienze di stato sono due o tre. Troppo poco materiale per sapere: occorre che diventino duecento o trecento. A quel punto si avrà una gamma sufficiente di esperienze diverse da permetterci di avvertire l’elemento comune ad esse, indipendentemente da circostanze esterne e accidentali. Nell’esempio del sonno, il neonato e il cucciolo impareranno che il sonno è sonno che avvenga sul letto, nel pavimento, al chiuso, all’aperto, da soli o in compagnia. A un certo punto sapranno che è ora di sdraiarsi e basta.
Mi viene in mente il titolo italiano di un libro di Kurt Vonnegut: “Quando siete felici, fateci caso.” Di nuovo, chi è felice, chi ci fa caso?
Nel processo di formazione di queste trecento esperienze (che, per inciso, non avverrà mai a meno che un costante e determinato lavoro di scuola non ponga per lungo tempo circostanze incalzanti), si faranno degli errori. Fa parte del processo. Si avranno magari quattro o cinque episodi in cui la presenza si accompagna a un’euforia positiva, all’esilarante sensazione di: “È meraviglioso, sono vivo, sono qui!” E a quel punto il centro intellettuale ratificherà lo stato di presenza come una positiva euforia.
Arriverà poi il giorno in cui non si sarà positivi per niente, un disagio quasi elettrico pervaderà la macchina, eppure… Eppure sono qui, pienamente, ci si ritroverà costretti ad ammettere. E il centro intellettuale si ritroverà costretto a rivedere la sua definizione di presenza; più e più volte, adeguandola alle più diverse circostanze, finché lo stato si lascerà vedere nella sua condizione pura, separata da tutte le scorie accidentali.
Per un certo periodo ho associato lo stato di presenza dei Centri Superiori a un certo formicolio nella regione del terzo occhio - formicolio che provo anche in questo momento. Poi il mio maestro invitò a non associare lo stato ad alcuna sensazione fisica, poiché queste sono ingannevoli. A quel punto sono stato in grado di riconoscere che potevo avere stati di presenza anche in assenza del formicolio e ora penso che questo, per qualche sconosciuto motivo, accompagni la metà dei miei stati, ma non tutti. Non so perché, ma so che è così.
Mi accorgo di essere presente perché ho avuto un alto numero di esperienze inequivocabili; e ho avuto un alto numero di esperienze perché ci ho seriamente provato a lungo e sono stato fortunato, ricevendo sostegno nel mio lavoro.
La seconda interpretazione, o sfumatura che leggo nella domanda, può essere espressa così: “È possibile essere presenti e non saperlo?”
Certamente. Il cucciolo ha sonno e non lo sa. Ho un vecchio ricordo di una persona che aveva assunto Marijuana e diceva “Non mi fa nessun effetto” mentre barcollava pericolosamente. Il centro intellettuale non ha ancora ratificato lo stato. Tutti abbiamo avuto esperienze di presenza, anche molto intense (uso sempre l’esempio dell’incidente stradale, che mi sembra il più chiaro) prima di avere in testa il concetto di ‘Presenza’.
Il punto è che il centro intellettuale non è un buon giudice degli stati. Sono fuori dalla sua giurisdizione, il che spiega come mai la scienza si affanni da secoli a cercare definizioni di coscienza che non sono mai soddisfacenti, pur girando intorno a un semplice punto. Il metodo scientifico non è fatto per riconoscere stati.
La sola parte in noi che può riconoscere la presenza dei Centri Superiori sono i Centri Superiori stessi.
Ho già invitato in passato a considerare i Centri Superiori come neonati che crescono - è una metafora, ma spiega bene certe dinamiche. A un certo punto questi cuccioli riconosceranno se stessi, come un cagnolino che si vede per la prima volta allo specchio. La presenza non è altro che l’attività contemplativa dei Centri Superiori che vedono se stessi (mi viene da aggiungere: che godono di se stessi); normalmente, con l’aiuto di una ‘rappresentazione’ esterna, una forma di teatro costituita da ciò che accade nel momento: bello o brutto, nuovo o abituale.
Questa rappresentazione serve da campo in cui il gioco si svolge, da pretesto e da carburante per sostenerlo. Se ci pensate, “Io sono qui”, è una frase quanto mai adatta al momento in cui ci si guarda in uno specchio. Fate caso alla sensazione di ‘Io sono qui’.
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