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Immagine del redattoreIl Ricordo di Sé

Fare bene, fare male

Poiché la quarta via è una via pratica, è nelle comuni circostanze della vita quotidiana che si possono ricavare lezioni importanti.

Molte di queste lezioni le ho avute intorno al tentativo di fare bene qualcosa.

Dal momento che noi esseri umani siamo meccanicamente soggettivi, anche la nostra idea di fare bene sarà soggettiva. (Recentemente mi sono sottoposto a una serie di esami medici, e ho ricevuto pareri professionali molto discordanti su cosa dovrei fare; ciascuno certamente fornito nel tentativo di darmi le migliori istruzioni).

Gurdjieff spese molte parole - e molto esempio - per spiegare l’importanza di provare a fare un lavoro al meglio. Parlò ad esempio delle tensioni muscolari non necessarie; disse che per piantare un chiodo noi sprechiamo in tensione l’energia che occorrerebbe per spostare un oggetto molto pesante. Invitò a lavorare come uomini, non come bestie: ovvero, in ogni momento e in ogni fase del lavoro domandarsi come potrebbe essere fatto meglio, essere presente ad esso, adattare i piani alle circostanze, non fare frettolosamente e superficialmente.

Ho letto con interesse e divertimento il post di Giacomo Bardazzi dove racconta di aver bruciato una camicia stirandola. Anch’io ho un episodio di stiro quando ero uno studente nuovo nella scuola. A uno dei miei primi incontri, qualcuno mi diede l’incarico di stirare la tovaglia del tavolo da pranzo. Era grande, e pur avendo stirato regolarmente in vita mia, non l’avevo mai fatto con oggetti grandi e mi trovai in difficoltà. Comunque lo feci come potei, e piazzai la tovaglia sul tavolo a lavoro finito.

Al termine dell’incontro, la studentessa che ci ospitava si apprestò a mettere alcuni piatti in tavola per un piccolo rinfresco. Vide la tovaglia e non potè trattenere un’espressione di disappunto:

“Oggi la signora delle pulizie ha fatto un lavoro orribile!”

“Ehm, l’ho stirata io la tovaglia.”

Lei fu subito spiacente di essersi lasciata sfuggire quella frase (che era tra l’altro un’espressione di negatività). Ma la frittata era fatta. Avevo ricevuto la mia fotografia. Ora potevo iniziare a osservare la mia caratteristica di vagabondo in azione, che non si cura dei dettagli e delle rifiniture, si accontenta di un lavoro raffazzonato; e di quella di non esistenza, che tende a fare le cose in modo distratto e trasognato, e a non vedere che qualcosa non va nel lavoro fatto. E della caratteristica di vanità, che si sentì oltremodo ferita da quell’osservazione, particolarmente sincera perché involontaria.

Dopo una serie di osservazioni su queste caratteristiche ho speso molti anni a cercare di mettere cura nel momento presente cercando di fare bene certe cose. Una composizione di fiori; lo stirare una camicia; il preparare un pasto; lo scrivere un post come questo; accostare i colori quando mi vesto; parlare con un cliente; e così via. Dopo decenni di questi sforzi posso dire che, se stirassi oggi una tovaglia, nessuno avrebbe niente da ridire.

Fare bene a questo livello è appropriato in una prima fase del lavoro. Per me fu soprattutto rendermi conto che, come tutti, tendevo a lavorare guidato dalle mie caratteristiche. Le mie scelte su cosa affrontare, quali parti necessitavano di più attenzione e quali erano meno importanti, non erano decise in base a criteri oggettivi, ma dalle mie caratteristiche, che di fatto vedevano e consideravano solo quello che volevano vedere. Quando vidi questo, mi diedi l’esercizio di domandarmi: come farebbe un altro, una persona diversa, questo lavoro? E provare a fare non come piace alla mia macchina, ma come dovrebbe essere fatto in un modo più oggettivo.

Questo esercizio era una tortura. Una cosa che si può fare per qualche tempo, ma oltre un certo limite schiaccia l’essenza. Ma, schiacciando l’essenza, l’ho vista molto di più. Ora che i suoi bisogni erano negati, si manifestavano e, per la prima volta, li vedevo e riconoscevo. Grazie a questo, ora so cosa piace alla mia macchina e cosa detesta.

Ricordo che i primi anni in cui cercavo di fare un lavoro al meglio, incolpavo la sfortuna. Ricordo ad esempio la preparazione di alcuni libretti fatti in casa, con traduzioni di poesie, che poi stampavo in qualche decina di copie e regalavo agli studenti. Tutto si svolgeva velocemente. Traducevo le poesie. Facile, sapevo farlo in velocità. Impaginavo il libretto. Facile, avevo esperienza di grafica. Andavo a stamparle (era l’ultima fase dell’ottava, il si-do) e quasi sempre il software si piantava o la stampante si inceppava, creando un caos e facendomi perdere un’enormità di tempo.

Osservai che 20% del mio tempo era per la preparazione del tutto, e 80% per risolvere problemi in fase di stampa.

Incolpai a lungo la sfortuna. Finché un giorno non compresi: dovevo preventivare questi problemi, mettere in conto la forza contraria; sapere già all’inizio che l’80% del tempo sarebbe stato speso in problemi di stampa e considerare i tempi in accordo con questo. (Cominciai a farlo, e da quel momento riuscii a stampare tutto in pochi minuti).

Il nostro maestro insiste molto sul fatto che il risultato dei nostri sforzi non è nelle nostre mani, ma in quelle delle forze superiori - degli Dei, per dirla come i greci.

Mi sono ribellato a questa idea per molti anni, ma dopo aver per così dire sbattuto la testa innumerevoli volte ora ne sono convinto anch’io. Non sono responsabile dei risultati delle mie azioni.

Rendersi conto di questo è uno shock, e può portare a un pensare sbagliato. Se non sono responsabile del risultato, tanto vale che non faccia tutti gli sforzi possibili, giusto? Tanto non è nelle mie mani. Ho sentito varie volte delle forme di questo respingente da parte di studenti della mia scuola. E, sempre, ho pensato che non vorrei essere sotto ai ferri di un chirurgo fatalista che la pensa in questo modo.

“Confida in Allah, ma lega bene il tuo cammello”, disse Maometto. Pur non avendo controllo sui risultati, abbiamo la responsabilità del nostro migliore sforzo. Lo dobbiamo a noi stessi, al nostro Sé. Dopodiché, le circostanze si sistemeranno in modo da darci la lezione più proficua, che a volte prende le forme di una umiliazione, nonostante abbiamo fatto davvero del nostro meglio. Se questo accade, devo ricordare che il lavoro sulla mia caratteristica principale - che è vanità - ne ha bisogno. Se un’umiliazione è stata decisa per me, che umiliazione sia: la mia storia personale fa parte del lavoro di artigianato degli Dei, e loro sono molto accurati e chirurgicamente precisi.

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