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Idolatria

  • Immagine del redattore: Il Ricordo di Sé
    Il Ricordo di Sé
  • 16 lug
  • Tempo di lettura: 4 min
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Ieri mi sono imbattuto in una citazione di Meister Eckart, il mistico tedesco medioevale:


"Perché Dio non è davvero amabile, dal momento che è al di sopra di ogni amore e amabilità. Come si dovrebbe dunque amare Dio? Dovresti amare Dio senza pensieri, cioè in modo che la tua anima sia priva di mente e libera da ogni attività mentale, perché finché la tua anima opera come una mente, ha immagini e rappresentazioni. Ma finché ha immagini, ha intermediari, e finché ha intermediari, non ha né unità né semplicità. Perciò la vostra anima deve essere spoglia di ogni mente e deve rimanere senza mente. Perché se amate Dio così com'è, o mente o persona o immagine, tutto questo deve essere abbandonato. Come lo amerete allora? Dovreste amarlo così com'è, un non-Dio, una non-mente, una non-persona, una non-immagine - e ancora di più, così com'è un Uno puro e chiaro, separato da ogni gemellarità. E dovremmo sprofondare eternamente da qualcosa a nulla in questo Uno. Che Dio ci aiuti a farlo. Amen".


Mi sembra che questa frase tocchi il punto principale. Occorre uscire dalla caverna di Platone, che è fatta delle nostre rappresentazioni.


Mi vengono in mente i tentativi di ‘purificazione’ in questo senso che varie religioni e vari rituali hanno tentato. Nella mia esperienza di quasi due anni in India, paese a maggioranza Indù ma con una consistente minoranza musulmana, ho visto nelle moschee e nei palazzi islamici, ricchi di preziose geometrie, la proibizione di rappresentare la divinità in forma umana. Si tratta evidentemente di uno sforzo che punta nella stessa direzione che ci indica Eckart.


Lo stesso per quanto riguarda il coprirsi la testa, il lavarsi i piedi, il fare un determinato gesto, come potrebbe essere in Italia il segno della croce. Dalla distrazione alla concentrazione, dall’impurità alla purezza, dal caos alla nuda semplicità.


Non mangiare questo, non mangiare quello - i musulmani non mangiano maiale, gli indù non mangiano manzo, i giainisti non mangiano animali né nulla che potrebbe danneggiarli, come le verdure che crescono sotto il suolo, i cristiani, quando ancora praticavano la loro religione, non mangiavano carne in certi periodi.


Togliamo per un attimo il focus sul dettaglio e concentriamoci sul principio: liberati di ciò che in te è impuro, e non introdurre cose impure.


Più si scende nel dettaglio e più si dimentica il principio: è una legge che qualsiasi principio esoterico venga travisato in mille e un modo, a seconda delle meccanicità e degli errori percettivi di ciascuno (È esattamente questa la caverna di Platone, è esattamente questa soggettività da cui siamo invitati a purificarci, queste ‘immagini’ e ‘intermediari’ menzionati da Eckart. Cristo dovette ricordare ai Farisei che cercavano continuamente di incastrarlo cercando eccezioni e situazioni limite rispetto alla legge ebraica, che - nel caso che li riguardava - non occorre concentrarsi su quello che entra nella nostra bocca, ma su quello che ne esce. Questo intelligente consiglio fu naturalmente ignorato, poiché era necessario che le cose dovessero procedere “Come avevano predetto le Scritture.”


Oggi è quasi di moda riconoscere che l’attività mentale è soggettiva. Le innumerevoli versioni di “Influenza B” che parlano di Matrix, legge dell’attrazione e via dicendo, sono popolarizzazioni semplificate di questa idea. Credo tuttavia che non ci rendiamo conto di quanto profondo sia l’elemento soggettivo nella nostra percezione. Davvero, la caverna è la mente. Leggevo ieri (in un libro di scienza, molto ben fatto e molto acuto) di come per decenni il mondo scientifico si sia rifiutato di comprendere come l’immagine visiva e la percezione del movimento si formino.


Vedo un cane correre per strada. Quello che mi sembra evidente è che il cane sia di un certo colore (nocciola), che la mia visione sia continua e che catturi il movimento, che io vedo la realtà come è. Invece, il movimento è una costruzione: la nostra percezione mette insieme delle immagini statiche e crea il movimento, esattamente come accade in una pellicola cinematografica, o in quei cilindri del secolo scorso in cui si vedeva un cavallo disegnato lungo un cilindro di carta correre, o negli angoli dei quaderni di scuola quando ci annoiavamo e disegnavamo un fiore che sboccia, una palla che salta.


Ma nemmeno questo rende l’idea della nostra percezione frammentata.


Abbiamo recettori nel cervello che distinguono i colori. Altri, separati, che si occupano solo delle linee orizzontali, o di quelle verticali. Altri che segnalano che un punto davanti a noi non è più nel posto dove l’avevamo trovato prima e lo cercano; e via dicendo, in modo enormemente più complesso di quanto si possa descrivere. E tutte queste percezioni non hanno gli stessi tempi, come appunto avviene in una pellicola cinematografica, ma alcune sono più veloci e altre più lente e ‘qualcosa’ in noi le deve analizzare, armonizzare e ricomporre, prendendo un sacco di decisioni, a volte sbagliate (quelle decisioni che da bambino mi facevano vedere un mostro in una pila di vestiti gettati su una sedia, o un cane che dorme in due sacchetti di spazzatura in un angolo della strada). Una rete di milioni di contatti che producono (inventano) “il cane corre”. Come dice Rilke noi, “Di casa nel mondo interpretato, non diamo affidamento.”


Questi sono i molti io. La sostanza di cui siamo fatti. Ed Eckart ci invita a sprofondare eternamente da qualcosa a nulla in questo Uno.


Che Dio ci aiuti a farlo, aggiunge.


“Dio”, notoriamente in ogni luogo secondo il catechismo cattolico, e quindi principalmente in questo luogo, rappresentando il Sé, l’unica parte che può ritenersi libera da queste rappresentazioni illusorie.

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