Non molto tempo fa, abbiamo proposto su questa pagina un esercizio che riguardava lo stare in quiete.
Uno dei commenti, da parte di una persona a cui l’esercizio sembrava non piacere molto, ricordava una frase di Gurdjieff secondo la quale è necessario il ‘fuoco’, qualcosa che bruci dentro.
Incidentalmente, vorrei dire a questo proposito due cose:
Innanzitutto, ‘quiete’ e ‘fuoco’ non sono affatto incompatibili. Ho appena visto il filmato di un’esecuzione di musica classica dove il direttore d’orchestra aveva entrambi al massimo grado.
Il lavoro di scoperta di sé comporta una lunga fase di osservazione in cui si devono provare molte cose diverse, anche ‘sbagliate’ secondo le normali norme di comportamento, o secondo la nostra logica e aspettative. Per fare un esempio, Ouspensky consigliava di provare a giocare con la velocità dei movimenti: per un giorno fare tutto più lentamente del solito, poi, il giorno dopo, tutto più velocemente. A quel punto, anche se una o entrambe queste azioni si riveleranno ‘sbagliate’, l’esperimento avrà portato molta più conoscenza rispetto a come la mia macchina si muove abitualmente e perché. Da quel momento in poi sarò in grado di decidere intenzionalmente qual è di volta in volta il passo che più favorisce lo stato che desidero.
Senza fuoco, comunque, non c’è vero lavoro. Al massimo, preparazione.
Se si è presenti, si è nella costante vicinanza di qualcosa di sgradevole, e la si usa come combustibile. Tutte le versioni sognanti della presenza come di uno stato soave soltanto piacevole, sono immaginazione.
Mi verrebbe da dire: essere presenti equivale a essere felici tra le fiamme.
Le fiamme, come l’acqua, sono in molte tradizioni l’elemento purificatore che prepara allo stato. L’acqua lava, ovvero elimina gli io incompatibili con la presenza. Il fuoco brucia, ovvero ci fa morire a noi stessi, alle nostre illusioni, alla nostra personalità.
Probabilmente molti avranno osservato nella propria vita che ci sono state lezioni apprese, che non sarebbero state acquisite senza una grande sofferenza. Una persona cara che è morta, una sicurezza che si è frantumata, sono spesso la porta di comprensioni che, nella comoda routine quotidiana, non sono possibili.
Questa è una legge: il ‘fuoco’ è in grado di operare una fusione, ovvero di modificare per sempre il nostro atteggiamento riguardo qualcosa. Posso avere tutti gli io intellettuali che voglio riguardo al fatto che bisogna essere gentili con gli animali; ma il giorno che vedrò qualcuno torturare crudelmente un cucciolo, ne riceverò un’impressione che mi farà per sempre essere immensamente amorevole con qualsiasi creatura, senza bisogno di dovermene ricordare ogni volta.
Il ‘fuoco’ è necessario per accedere ai centri superiori.
I centri superiori non percepiscono la sofferenza come la percepisce la macchina: una volta senza identificazione, si accede a una realtà dove questo fuoco viene vissuto in modo più neutrale, come parte di ciò che è necessario; ciò che in uno stato ordinario percepiamo come gioia e dolore si fondono in un’unità inscindibile, ben rappresentata dall’immagine del fuoco.
Offro un’immagine di sofferenza che innalza che a molti sarà nota: San Francesco riceve le stigmate, quadro rappresentato in moltissime chiese dell’Italia centrale. Questa versione è di Pietro Lorenzetti. Gli elementi che sono sempre raffigurati: l’angelo con sei ali, a rappresentare il Mondo sei, in questo caso col volto di Cristo; i raggi che vanno a colpire il corpo; l’atteggiamento di tranquilla accettazione del santo che nemmeno sembra soffrire; e infine il suo compagno, che è sempre mostrato come vicino ma estraneo. Qui legge, a volte guarda da un’altra parte, o dorme: a dimostrare che l’esperienza avviene soltanto all’interno di Francesco.
Offro poi uno straordinario testo, che consiglio di leggere molto lentamente, più volte, ad alta voce, fino a che le sue sfumature non entrino in voi.
Si tratta dell’ultima annotazione dell’ultimo quaderno del poeta conscio Rainer Maria Rilke, dopodiché morì. Sapeva di stare per morire, aveva una forma di leucemia e soffriva molto. Sapeva che quelle erano le ultime ore, le ultime forze. A quel punto non scriveva per vanità, per il plauso, ma per annotare, come aveva sempre fatto, la sua esperienza spirituale. Osservate anche le ultime parole, la frase tra parentesi. Quella è la seconda persona del Maggiordomo che impartisce ordini alla macchina: attento, dice il Maggiordomo, questa non è una malattia come quelle che hai avuto da bambino, una piccola tappa di sofferenza che poi andava via e lasciava il posto a nuove esperienze: questa è la fine vera.
Queste sono le ultime parole dell’uomo, prima che sia l’Angelo a sua volta, a prendere la parola.
Vieni tu, tu ultimo, ch’io riconosco,
nelle fibre del corpo insanabile dolore:
come arsi nello spirito, ecco ardo
in te; a lungo il legno ha rifiutato
di assentire alla fiamma che tu attizzi, ma ora io ti alimento e ardo in te.
La mia mitezza di qui, alla tua rabbia,
si fa rabbia d’inferno, non di qui.
Puro ormai da progetto e da avvenire,
salii sull’irto rogo del soffrire,
sicuro che questo cuore vuoto di sostanza
non vale a comperare un lembo d’avvenire.
Sono ancora io che qui ardo irriconoscibile? Ricordi non trascino in queste fiamme.
O vita, vita: Essere fuori.
Ed io nella fiamma. Nessuno mi conosce.
[Rinunzia. Non è come nell’infanzia
La malattia. Un rimando: Un pretesto per crescere.
E sussurri e richiami da ogni parte.
Ciò che a quel tempo primo ti stupì, non mischiarlo
A questo che ora vivi].
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