Il mio maestro ha detto recentemente una cosa che vorrei offrire in questo post: "Si ottiene sollievo dall'attrito non cercando sollievo dall'attrito".
Questa frase tocca un punto importante della trasformazione della sofferenza. Spesso, anche i più esperti studenti o cercatori, si scontrano con la realizzazione che in realtà il proprio scopo di lavorare con un attrito viene in gran parte dal volere che se ne vada. Potremmo dire che in questo caso si vuole che il presente sia diverso da quello che è, e quindi la trasformazione in presenza non può avvenire.
Ovvio che il lavoro non è masochismo, quindi se abbiamo una spina in un piede, ha senso togliersela; se fa caldo, accendiamo il ventilatore; se abbiamo mal di schiena è utile prendere un antidolorifico. Il percorso di trasformazione, sebbene profondamente personale nelle sue fasi di elaborazione e accettazione, è prendere questo stato o questa sostanza che va dall'essere scomoda all'essere intollerabile, e agire su di essa avviando un processo che in qualche modo finisce per essere benefico.
Questo non vuol dire che la scomodità o il dolore associati scompaiano, anche se potrebbe accadere. Il desiderio che l'attrito scompaia viene dalla parte di noi da cui la trasformazione ci spinge a separarci - essa è un invito a riconoscere la realtà dei centri superiori, dove viene meno la distinzione tra bello e brutto, tra positivo e negativo, spiacevole e spiacevole.
Scriviamo spesso che finché siamo vivi viviamo in due mondi, quello dei centri inferiori e quello dei centri superiori, e il primo, anche quando saremo in stati di coscienza più elevati, avrà sempre qualcosa di cui lamentarsi. Il lavoro su di sé è un lavoro di spostamento del senso di chi siamo, della propria identità.
Ancora dal mio maestro: "Il presente non è sempre bello, ma è sempre bello essere presenti".
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