“Io” di giudizio
- Il Ricordo di Sé
- 20 ago
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Una coppia di amici mi raccontava un giorno di quando, su richiesta del nostro maestro, trascorsero un paio d’anni in Russia (una Russia molto diversa, quella di diversi decenni fa).
Alla mia domanda: “Com’è stata l’esperienza”? Hanno risposto subito con: “Sono matti.”
“Come mai?”
L’esempio fornito mi colpì molto: “Cominciano a tinteggiare i muri dei palazzi dal basso.”
(Entrambi i miei amici sono centrati nel centro motorio).
Pensai a lungo a quella loro risposta, che mi sembrava così soggettiva e inadeguata a descrivere una nazione così ricca di letteratura, poesia, arte, religione, storia, balletto e molto altro. Ho visualizzato i miei amici mentre camminano in qualche viale del centro di Mosca o San Pietroburgo, mentre vedono una squadra di pittori che cominciano dal basso, si guardano l’un l’altra e dicono, all’unisono, lo sprezzante verdetto: “Incredibile.”
Ogni giorno, molte volte al giorno, mi capita di pronunciare a mezze labbra la stessa parola, “Incredibile.” La piena disapprovazione di un comportamento altrui.
Mi disturba il lato estetico delle altre persone: i vestiti, i colori, le pettinature. Mi disturbano i vecchi che si vestono da vecchi, e i vecchi che si vestono da giovani; i vestiti appariscenti e quelli che scompaiono tanto sono comuni. Mi disturbano i ‘troppo lenti’ e i troppo veloci; i maleducati e i troppo cerimoniosi; quelli che non mi salutano e quelli che si fermano a parlarmi troppo a lungo; quelli che parlano a voce alta, e quelli con un filo di voce che si sente a stento - non mi va bene quasi nulla.
Mi disturba quello che vedo su Facebook, su Internet in generale. Mi disturba la sciatteria delle informazioni, mi disturbano i falsi, le persone che scrivono quattro banalità e poi le “Firmano” Lewis Carroll o Platone. Mi disturbano le foto false fatte con l’intelligenza artificiale, le pietose argomentazioni di certi teorici, e via dicendo.
Potrei stilare un elenco di decine di pagine, ma direi che ho reso l’idea: la mia macchina giudica, quasi costantemente.
Come mai lo faccio?
Perché sono meccanico.
Come ogni essere umano, sono soggettivo e non vedo “le cose come sono”; di volta in volta, mi concentro su uno o l’altro degli infiniti dettagli che ogni istante mi offre - mi concentro su qualcosa che, per una ragione o per l’altra, mi riguarda.
La percezione più facile è quella di qualcosa “che non va.” Per come siamo costruiti, qualsiasi cosa che si presenta come ce la aspettiamo tende a passare inosservata, e alla nostra attenzione arriva l’inaspettato e il problematico, poiché questi spesso richiedono una qualche risposta del nostro essere. Posso camminare per ore avanti e indietro sul liscio pavimento di marmo di una casa, ma dei diecimila passi che ho fatto ne ricorderò soltanto uno, quello che mi ha fatto dolorosamente incappare in un mattoncino di lego; è in quel momento che l’atto di camminare, prima sepolto inavvertito nel “Fante di Picche”, balza alla coscienza, spesso seguito da un io di giudizio: ma chi è che lascia queste cose per terra?
Il cosiddetto sé inferiore, la nostra parte meccanica, ha bisogno di sentirsi reale. Ha anche bisogno di sentirsi ‘nel giusto’: positiva, buona, impeccabile, intelligente.
Devo continuamente giustificare a me stesso la mia intelligenza e il mio essere nel giusto. Quale modo migliore del rilevare una tua manchevolezza? In questo modo mantengo l’illusione, il ritratto immaginario di me stesso. Nel mio caso particolare, dato che credo che la mia “caratteristica Principale” sia quella di vanità, la caratteristica si impadronisce di me e prospera nel credersi moralmente, intellettualmente o esteticamente superiore a qualcun altro. La macchina si impadronisce di osservazioni che dovrebbero appartenere al lavoro per acquisire coscienza e avvelena l’esperienza.
Occorre uno sforzo costante per valutare un’impressione che a prima vista abbiamo ricevuto come negativa.
Siamo costruiti sull’aspettativa: tutto in noi, a partire dalle funzioni basilari del centro istintivo, lancia continuamente dei segnali al mondo circostante, aspettandosi una certa reazione - e soltanto quando questa reazione è disattesa, la percezione arriva alla coscienza, perché potrebbe andarne della nostra vita o della nostra sicurezza. L’acqua deve essere liquida; ci contiamo quando la versiamo in un bicchiere. Il pavimento deve essere solido: se si comporta come chewing-gum e comincia ad assorbirci, allora probabilmente siamo in un incubo. Il melone deve profumare di melone; il pesce dovrebbe odorare di fresco e non di marcio; se odora di marcio lo gettiamo, con un’espressione schifata.
La mia camicia da uomo deve avere i bottoni sul lato destro e le asole sul sinistro. Quando lascio cadere un oggetto, questo deve precipitare verso il basso. (Ho un bel da dire: niente aspettative).
L’io di giudizio mi dispensa dal comprendere. Ogni manifestazione è l’aspetto di una legge. Finché dico: “incredibile” con fare sprezzante, mi precludo la comprensione di questa legge.
Qualcuno si comporta in modo che mi appare cattivo, spregevole, stupido, troppo ingenuo e via dicendo? Questa percezione va validata: è così o sono io che non riesco a vedere altre ragioni per comportarsi come questa persona si comporta? Dove sono le scusanti che tiro fuori continuamente per me stesso? Perché non riesco ad applicarle a quest’altro individuo? E, se alla fine riesco a verificare che quel comportamento è davvero spregevole, o scorretto, non posso limitarmi a prendere nota di non comportarmi così a mia volta, invece che entrare in questa spirale negativa di indignazione?








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