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Immagine del redattoreIl Ricordo di Sé

L'attore e le emozioni negative

Questo post prova a rispondere alla domanda di Gabriele Giovannini riportata qui di seguito.

Un bravo attore, che risulti "vero" al pubblico, non imita semplicemente l'atteggiamento di un "arrabbiato", un “innamorato", un "triste".... ma piuttosto, a seguito di allenamento (e magari anche con l'aiuto di immagini mentali del suo passato vissuto o visto vivere) può ottenere la veridicità evocando dal suo centro emotivo le emozioni stesse.

Partendo da questo presupposto, come considerare tale attività? Esempio: il dover suscitare in sé (e nel pubblico) una sensazione di disperazione, che associo ad idrogeni molto pesanti, è effettivamente nocivo per l'attore in sé?

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La domanda mi sembra interessante anche per chi non faccia l’attore.

Intanto, perché presuppone un’altra domanda che ci riguarda tutti, ovvero se l’emozione negativa provata ‘realmente’ sia necessariamente più vera di quella messa in scena. In modo ancora più esplicito, quanto la nostra vita sia più ‘reale’ della recita di un attore.

In secondo luogo, collegato al primo, perché l’atteggiamento dell’attore sul palcoscenico può diventare un’ispirazione formidabile per chi fa un lavoro su di sé.

Prendiamo le nostre vite molto sul serio. Non nel senso che richiederebbe il lavoro: utilizzare tutto ciò che è disponibile per ricordare noi stessi. Ma nel senso di considerarle ‘reali’, qualcosa che accade proprio ‘a me’ e di fronte al quale ‘io’ devo prendere decisioni e agire in un determinato modo.

Dal punto di vista del sistema, come abbiamo scritto più volte, le cose accadono secondo un copione già scritto, designato a produrre un certo risultato, dove noi abbiamo poca o nessuna autorità.

Epitteto disse: “Ricorda che sei soltanto attore di un dramma, ed è chi lo allestisce a stabilire di quale dramma: se lo vuole breve, reciti un dramma breve; se decide che sia lungo, uno lungo; se ti riserva la parte di un mendicante, cerca di interpretarla con bravura, e così quella di uno zoppo, di un magistrato, del privato cittadino. Perché il tuo compito è questo: impersonare bene il ruolo assegnato; sceglierlo tocca ad altri”.

Per la macchina questo è impossibile. Solo la Presenza, i nostri centri superiori, possono comprendere la verità di questo paragone.

Tornando al tema delle emozioni, l’analogia permane. L’espressione delle emozioni negative è nociva quando siamo identificati. Probabilmente, quando un attore si immedesima in un ruolo, in qualche modo si identifica in quel ruolo e cerca di recuperare esperienze ‘utili’ a rievocare identificazioni simili provate in passato per recitare la parte più efficacemente.

Ma questo è il punto. Evocare intenzionalmente un’emozione e indentificarsi con quell’emozione non è la stessa cosa.

Sergio Antonio commentava la domanda osservando che “il lavoro dell’attore ha molti punti in comune con quello di chi cerca la consapevolezza. Se esprimo negatività nella vita, significa che sono identificato, che il mio senso di ‘io’ è perso nell’emozione negativa. Come attore posso creare una separazione. Allo stesso tempo, dovendo rappresentare, sentirò in me esattamente i ‘sintomi’ della negatività. Questa sensazione di straniamento è presenza”.

La macchina fraintende l'identificazione con la ‘realtà’.

Attraverso l’osservazione e il lavoro, possiamo essere presenti - in quanto attori proprio come in quanto uomini - alle manifestazioni della macchina. Il nostro copione potrebbe non cambiare, ma l’atteggiamento interiore, e quindi il ‘danno’ dell’espressione di negatività, sarà molto diverso.

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