Ieri sera, in un bel giardino, durante un incontro con amici studenti della mia scuola, a un certo punto potevo sentire le voci di una coppia da qualche casa vicina. Una discussione animata: voci sempre più forti, sempre più decise.
Non ho potuto fare a meno di pensare che ero più fortunato della maggior parte dei presenti, in quanto non capivo la lingua: quei suoni rimanevano per me una musica di fondo, a cui essere presente senza il pericolo di rimanere identificati, invischiati nel contenuto della discussione.
È stata una sera in cui, per svariati motivi, mi sono dato un esercizio che potrei chiamare del non-fare. Volevo ad esempio dire qualcosa, e non la dicevo; osservando poi l’energia che questa cosa non detta produceva in me (e facendo così interessanti scoperte su quale parte in me volesse parlare e perché). Oppure volevo avvicinarmi a qualcuno per avere una conversazione privata, e non lo facevo. E osservavo l’energia di quell’azione mancata, come sospesa davanti a me.
Potevo vedere che tutti questi desideri di fare e dire erano sensati e legittimi. Avevano una loro ragion d’essere, avrebbero aiutato qualcuno. Su quel livello, sarebbe stato meglio fare, dire.
Su un altro piano, questo esercizio di inazione ha innalzato enormemente il mio stato. Ho visto la marionetta, la macchina, che voleva fare, dire, giudicare, operare, muoversi così come è stata istruita a fare e secondo le leggi che l’hanno costruita. E, senza sforzo alcuno, potevo comandarle di star ferma, come se avessi in mano un telecomando, avvertendo al tempo stesso, come se si trattasse di uno sconosciuto che osservo per strada, come mai quella macchina si agita e vuole fare e dire e muoversi.
Una serata di grande successo: la coppia di vicini continuava a parlare; la mia macchina sedeva quieta sorseggiando una limonata senza fare niente, i miei Centri Superiori osservavano senza giudicare, senza voler cambiare nulla, comprendendo in modo immediato e senza ragionamenti, una felicità intensa e tranquilla mi pervadeva.
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