
Apro la finestra alla mattina, e davanti ai miei occhi c’è ben poco di consueto. Sole abbagliante, un fiume, grattacieli. Tamburi e campane annunciano l’ingresso ai due templi che mi trovo proprio sotto casa, uno Indù e uno Jain. Scimmie saltellano su alberi di magnolia. Il traffico è caotico all’inverosimile. La temperatura è estrema, oggi sono previsti 45°.
Mi affaccio al balcone, e davanti a me ogni singola impressione è fortemente insolita. La forma delle finestre, i coloratissimi saree delle donne che stendono i vestiti ad asciugare, i versi degli uccelli. Stamattina l’ho fatto con una sorta di vertigine, comprendendo quanto è bizzarra la mia esistenza - qualsiasi esistenza in verità, non soltanto la mia. Vista da qui, la colazione con tre biscotti e un caffellatte in un paesino italiano risulta altrettanto magica, esotica e incredibilmente ricca.
Eppure, soltanto un momento dopo qualcuno mi chiama, una telefonata di lavoro, e questo senso di magia lascia il posto a una conversazione tanto ‘normale’ da risultare noiosa. Tra mezz'ora non me ne ricorderò più. Mi preparo un caffè (una delle isole di italianità che ho mantenuto, e che talvolta rappresenta l’unica esperienza di normalità in un mondo sottosopra simile a quello di Alice nel Paese delle Meraviglie), e nella sequenza dei miei gesti automatici non c’è nulla di magico.
La ‘macchina’ umana fa di tutto per sopprimere il miracoloso, ridurlo a una sorta di omogeneizzato insapore. Fa questo per evitare la paura e il dolore; ma non c’è modo di sbarrare la porta alle esperienze difficili senza chiuderla anche nei confronti di quelle belle.
Questa soppressione è l’ingresso del sonno che ci avvolge, quello da cui diciamo di volerci liberare.
Uno dei miei scopi è non dimenticare, non perdere di vista il miracoloso.
Da Walt Whitman:
Io Credo che una Foglia d’Erba
Io credo che una foglia d’erba non sia meno del quotidiano lavorio delle stelle,
E una formica è egualmente perfetta, e un granello di sabbia, e l’uovo dello scriccio,
E la raganella è uno dei capolavori più grandi,
E il rovo che si arrampica potrebbe adornare le camere del cielo,
E il ganghero più piccolo nella mia mano potrebbe irridere tutti gli ingranaggi,
E la mucca che sminuzza con il capo calato sovrasta qualsiasi statua,
E un topo è un miracolo sufficiente a far vacillare sestilioni di miscredenti,
E io potrei venire ogni pomeriggio della mia vita a osservare la figlia dell’agricoltore
Che bolle il tè nel suo bollitore di ferro e inforna il tortino.
Io trovo e incorporo gneiss, carbone, filati estesi di muschi, frutti, grani, esculenti radici,
E sono completamente stuccato di quadrupedi e uccelli,
E ho lasciato ciò che è alle mie spalle per buone ragioni,
E richiamo ogni cosa e di nuovo la richiudo, quando ne ho voglia.
Invano affrettarsi o adombrarsi;
Invano le plutoniche rocce emanano il loro vecchio calore contro il mio approccio;
Invano il mastodonte si ritira sotto le sue ossa polverizzate;
Invano gli oggetti si stagliano in leghe lontane, e assumono molteplici forme;
Invano l’oceano si deposita nelle cavità, e i grandi mostri vi abitano il fondo;
Invano la poiana si dà alloggio nel cielo;
Invano il serpente scivola tra i ceppi e i rampicanti;
Invano l’alce s’addentra in segreti passaggi del bosco;
Invano l’alca dal becco a rasoio veleggia verso nord fino al Labrador;
Io la seguo velocemente, ascendo al nido nella fessura della scogliera.
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