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Immagine del redattoreIl Ricordo di Sé

Le tre linee di lavoro - seconda parte

La divisione del lavoro in tre linee è utile per capire concettualmente che esistono tre ambiti distinti nel lavoro di scuola. Tuttavia nell’esperienza pratica questi non vengono necessariamente vissuti come distinti, ma si possono mescolare in modi svariati e molto personali. In ambito di scuola c’è un elemento di prima, seconda e terza linea in quasi ogni evento o azione.

Ogni circostanza è un’opportunità di lavoro, nessuna esclusa. Non c’è routine, c’è soltanto la possibilità di innalzare la presenza nel momento, qualsiasi esso sia. Sta a me il trasformare o meno la lettera che sto scrivendo, il pacchetto che sto incartando, la telefonata, lo sguardo, la decisione di dire o non dire, di come dire, in uno spazio sacro. Un potere che ho è di trasformare la mia vita in esercizio; di ‘farmi offerta sacrificale’, come recita un antico testo mesoamericano.

In uno studente all’inizio del suo lavoro c’è l’aspettativa di ricevere: gli altri (persone, esercizi, comprensione nuova) mi cambieranno. Man mano che si procede, questo potere trasformativo viene ad essere - in apparenza - sempre più nelle nostre mani. Arrivo a conoscere molto. Ho finalmente le armi per capire cosa accade in questo momento, le forze in gioco: come viene applicata la legge del tre e dell’ottava a questa situazione, quali sono i tipi di corpo, le caratteristiche e il centro di gravità degli attori.

A quel punto si apre una scelta cruciale. È possibile che sopraggiunga un intervallo, una fase di stanca. Al principio non sapevo nulla. Ogni persona, ogni incontro, ogni evento, ogni frase avevano un forte potere risvegliante, erano uno shock per la prima linea. Adesso, quello che altri mi dicono, lo so già. Ho già fatto questo, provato quello. Potrebbe succedermi ciò che accade all’ innamorato che al primo appuntamento quasi sviene per l’emozione, e dopo qualche anno si presenta distrattamente, un po’ annoiato, neanche porta un mazzetto di fiori.

Quando questo accade è perché, invece di sollevarmi al livello della scuola, ho abbassato la scuola al livello della mia macchina. Ho addomesticato lo spirito. La nostra macchina tende ad addomesticare qualsiasi esperienza, a renderla simile a se stessa, allo stesso modo in cui le nostre case ci assomigliano, i nostri cani ci assomigliano, i nostri vestiti, i nostri pensieri, i nostri oggetti, i nostri viaggi, i nostri amici, i nostri pasti, i fatti che ci accadono ci assomigliano. Il sé inferiore si è impadronito di opportunità superiori. Succede, periodicamente, a tutti. A quel punto giungono intervalli che costringono a modificare profondamente il proprio lavoro. Le opportunità si presentano su linee diverse da quelle abituali.

Una scuola fornisce una danza di eventi che non esito a definire magica e mistica, che ci darà in modi avventurosi e inaspettati, degni di un romanzo o di un film d’azione, la possibilità di liberarci da noi stessi (per avvicinarci a un altro ‘noi stessi’, sconosciuto, invisibile ma autentico). Si impara a vivere da una parte nuova, e a far tacere quella vecchia.

Una cosa che cambia col tempo e con l’esperienza è il ritmo a cui questo accade. Gli shock esterni, forniti dalla scuola (da questa danza di eventi e combinazioni posta in atto dalla scuola: la somma dei miei sforzi, degli sforzi di tutti, della conoscenza, e dell’aiuto di forze superiori chiamate in causa da un maestro) continua a verificarsi. Soltanto, ciò che era sufficiente al principio, in seguito non basta più. Il lavoro spirituale necessita di una costante accelerazione. Inizialmente uno shock al mese, poi uno alla settimana, poi uno al giorno, fino ad arrivare a uno ogni tre secondi, che è ciò che è necessario per risvegliarsi. Se all’inizio è sufficiente riconoscere e assorbire la luce, a un certo punto bisogna diventare capaci di produrla.

Dapprima confusamente e con molti errori, diventiamo noi stessi un fattore di presenza. Non dipendiamo più dall’illusione di circostanze esterne favorevoli, poiché abbiamo imparato a rendere favorevole qualsiasi circostanza.

“D’ora in poi non domando buona fortuna,

Io stesso sono buona fortuna.”

(Whitman)

E questo può avvenire soltanto quando si accetta di ‘morire’; di lasciar cadere la propria personalità, il proprio nome e cognome.

“Hafiz, fatti da parte, blocchi la via.”

(Hafiz)

“Certo è strano non abitare più sulla terra,

Non più seguir costumi appena appresi,

Alle rose e alle altre cose che hanno in sé una promessa

Non dar più significanza di futuro umano;

Quel che eravamo in mani tanto, tanto ansiose

Non esserlo più, e infine il proprio nome

abbandonarlo, come un balocco rotto.

Strano non desiderare quel che desideravi. Strano

Quel che era collegato da rapporto

Vederlo fluttuare, sciolto nello spazio. Ed è faticoso esser morti;

Quanto da riprendere per rintracciare a poco a poco

Un po’ d’eternità. ”

(Rilke)

“È faticoso”: cioè va sostenuto, non accade. Quando qualcosa cessa di essere meccanico e diventa nostro, allora nasce la responsabilità e il necessario sforzo di sostenerlo. Allo stesso tempo questo sforzo è leggero, poiché non sono io - il vecchio io - a compierlo. Mi sono fatto da parte, lascio che si compia.

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