Note sull’idea di scala
- Il Ricordo di Sé
- 31 gen
- Tempo di lettura: 5 min

In un recente esercizio proposto da Miriam si accennava all’idea di scala, paragonando qualcosa che mi può succedere e mi irrita a infelicità più grandi, aumentando così il mio grado di accettazione.
Questo è un uso pratico e saggio; penso che se sapessi adottarlo sempre, la mia vita sarebbe molto più leggera e produttiva. Filosofi cosiddetti Stoici, ma soprattutto uomini consci, come l’imperatore Marco Aurelio e lo schiavo Epitteto ne hanno scritto con grande profondità: a chi fosse interessato, raccomando i loro meravigliosi scritti.
Oggi vorrei approfondire il concetto di scala, menzionando aspetti che non molto spesso vengono chiariti.
Ouspensky fu molto chiaro rispetto a questa idea, con esempi illuminanti: disse ad esempio che noi conosciamo la nostra casa abbastanza in profondità, la poniamo in relazione diretta col nostro corpo; ma conosciamo il quartiere un po’ meno in profondità, la città ancora meno in dettaglio, la nazione ancora meno e il continente meno ancora. Questo è giusto e naturale; innaturale sarebbe pretendere di conoscere ogni angolino dell’Europa o Asia con la stessa ricchezza di dettagli con cui conosciamo il nostro appartamento: ogni rubinetto, ogni finestra, ogni granello di polvere su ogni scaffale di ogni casa di ogni città.
Questo non significa che dobbiamo limitarci a interessarci al nostro piccolo appartamento e ignorare il resto. Al contrario, ci sono dinamiche che possono soltanto essere osservate nell’ampio respiro spaziale di una città, di una nazione, o in quello temporale di un anno, di un secolo, di un millennio. Semplicemente, più ampia è la scala, più osserveremo per grandi principi, ignorando i dettagli. Tornando all’idea di appartamento, avendo viaggiato tanto nella mia vita ora conosco molto meglio che cosa significa abitare in una casa italiana, tutti i pregi e le limitazioni che ne derivano. Se avessi trascorso tutta la mia vita dentro una casa sola, ne saprei molto meno.
Non conoscerei la vita nelle grandi metropoli, con i loro spazi sacrificati; o quella nelle grandi pianure dove il vicino più prossimo è a venti chilometri. Non conoscerei la minuta funzionalità dei comuni oggetti in Scandinavia, dove aggeggi come i fermafinestre, contrariamente all’Italia, funzionano davvero; o l’assordante rumore delle metropoli indiane, contrapposto al silenzio assoluto di una notte in una campagna italiana, turca o americana; non conoscerei la cura della manutenzione negli edifici del Nord Europa, dove appena si forma una piccola crepa viene riparata e ridipinta, e la monumentale incuria di altre aree del mondo dove edifici e strade vengono lasciate scrostarsi, creparsi e cadere a pezzi finché non scompaiono come dopo un bombardamento; non conoscerei la magnificenza pomposa e monumentale di Parigi (e delle innumerevoli città che nel secolo scorso l’hanno imitata), con i suoi viali immensi e le sue piazze sproporzionatamente ampie, fatte non per un uso umano, quotidiano, ma per ricordare il potere. Grandeur, si dice, appunto. Non conoscerei la quasi eterna permanenza dei concetti architettonici egizi e greci, con le loro colonne e capitelli, imitati per conferire dignità agli edifici, fino ai giorni nostri.
Ho sperimentato i vantaggi di strade dritte, ampie e pulite che seguono un piano regolatore; e i vantaggi diversi che vengono dall’addossarsi spontaneo delle case alle colline e l’una all’altra in un borgo medioevale come una cellula, una colonia di batteri, una creatura vivente (e preferisco decisamente questi ultimi).
L’idea di scala ci aiuta a capire molte cose, come l’idea di giustizia e ingiustizia e il nostro posto nell’universo.
Non c’è momento più realistico e oggettivo di quando ci fermiamo a guadare in alto in una notte stellata. Questa vertiginosa sensazione di quanto siamo piccoli è esatta. Nella scala della terra, siamo come dei batteri, assieme a tutto ciò che siamo abituati a chiamare vita: animali, piante. A questo livello, ovviamente (ma lo ignoriamo regolarmente), non ci può essere alcuna giustizia che ci riguardi personalmente, dato che l’intera vita sulla terra è un sistema di individualità che si sostiene sul fatto che esse si uccidano e divorino a vicenda. Nemmeno alla terra importa il mio destino individuale, che io viva cent’anni o venti, che io sia mangiato da un leone, tanto meno che perda la salute o il lavoro, e meno ancora che la bella ragazza in autobus non accetti il mio invito a cena. Nella scala del Sistema Solare, non possiamo venire considerati se non come massa di vita che serve a colmare un intervallo energetico tra la Terra e gli altri pianeti. Nella scala della galassia, tutta la vita sulla terra, tutta la Terra, è un granello di polvere. Oltre a questo livello di grandezza e scala temporale, non esistiamo.
Eppure, a occupare la mia attenzione, giorno dopo giorno, è proprio il fatto che perdo la salute e che la ragazza non accetti il mio invito. La mia realtà quotidiana dimentica i dati oggettivi ed è fatta di queste piccole cose.
Hai mai visto un serpente in uno zoo? Sta in un cubicolo di vetro, con soltanto un po’ di sabbia, un sasso, sotto al quale può rifugiarsi, e un ramo secco piantato a simulare un albero, sul quale può arrotolarsi. Di tanto in tanto una mano invisibile lascia cadere nella gabbia un topolino, e comincia il momento della caccia. Io, serpente, percepisco tutto questo come l’universo intero: la sabbia, il sasso, il ramo, il topolino occupano tutta la mia attenzione, giorno dopo giorno. Quando morirò, il guardiano darà una pulita alla gabbia e mi sostituirà con un altro serpente. Eppure l’idea di scala mi aiuterebbe a capire che quella è una gabbia, e attorno c’è uno zoo coi suoi guardiani, potrei avere un’idea di come mai esiste questo zoo, la città che gli sta intorno, e la nazione che lo ospita, e la terra attorno ad essa con tutti i suoi serpenti prigionieri e liberi.
Essere divisi in tanti io ci pone in una condizione simile. Dimentichiamo anche quello che ‘sappiamo’. Se un io sa, non possiamo dire di sapere, poiché non abbiamo controllo su di esso e nemmeno possiamo richiamarlo a piacere, poiché non c’è nessuno in noi in grado di richiamare, non c’è identità.
Ci rendiamo davvero conto di questo?
Mi è chiaro di no, e mi è anche chiaro come mai questo sia, ahimè, inevitabile. È l’idea stessa di scala che mi aiuta a comprendere, del meccanismo secondo il quale il sistema natura offre a pochissimi la possibilità di emanciparsi da alcune leggi, e costringe la maggioranza incatenata alle stesse leggi. La vita sulla terra è un trasformatore di energia, attraverso la digestione di impressioni e altre forme di energia, che colma l’intervallo mi-fa tra la terra e il resto del sistema solare.
La possibilità di risvegliarsi sta tutta in questa piccolissima eccezione rispetto al mattatoio che è la vita, il buchetto in cui forse potrei infilarmi ora e forse porta fuori da qui, anche se sembra troppo stretto, anche se non trovo il coraggio, anche se mi distraggo e mi dimentico che proprio in questo momento i miei compagni animali vengono uccisi e macellati. Paragone troppo truce, penserà qualcuno. Ma il vedere questa realtà è la prima condizione per liberarsene. Una differenza tra l’essere umano e il resto della vita sulla terra c’è, ed è il potenziale di sviluppo. C’è un altro meccanismo, un altro sistema, conscio questa volta, ed è possibile emanciparsi dal primo e raggiungere il secondo.
È per offrire questa visione a una manciata di persone che, giorno dopo giorno, ci sforziamo di comunicare.
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