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Immagine del redattoreIl Ricordo di Sé

Obiezioni a un esercizio

Come avrete probabilmente avuto occasione di vedere, da qualche tempo abbiamo ripreso ‘L’esercizio della domenica’: post settimanale che suggerisce un semplice esercizio da fare per sei giorni e crea spazio per condividere osservazioni e risultati.

Seguire esercizi che vengono suggeriti è una pratica diffusa nel lavoro in molti gruppi o scuole. In questa pagina Facebook, ovviamente, ha un aspetto molto più ‘leggero’, in quanto qui ognuno è libero di fare ciò che crede, non è legato da un patto comune che comprende esercizi e pratiche. Chi vuole, quando vuole, prova e vede l’effetto che fa.

Sarebbe tuttavia profondamente inesatto dire che chi semplicemente ci legge in un gruppo Facebook sia più libero di chi partecipa a una scuola, per il fatto che al secondo vengono imposti esercizi: pensare così sarebbe ignorare la ‘base delle basi’, la prima cosa che si apprende quando si comincia a sapere della quarta via: che noi non siamo unificati, ma siamo fatti di tanti ‘io’. Che ogni pensiero, sentimento, movimento e sensazione è un 'io', ovvero crede di rappresentare tutto il mio essere anche se dura tre secondi e poi sparisce. Che questi io vanno e vengono ogni paio di secondi, che non sono sotto il nostro controllo, che ci comandano, e che se crediamo alle loro voci siamo ipnotizzati, nel sonno. Liberi, così come siamo, non possiamo essere.

Si può azzardare una prima divisione dell’umanità tra quelli che sanno di questa idea e quelli che non la conoscono. Se penso di essere unificato, se non ho verificato di essere fatto di tante schegge impazzite, allora sottopormi a un esercizio che limiterà inevitabilmente la mia libertà e il mio raggio d’azione, ha poco senso. Un esercizio è utile solo se penso che forse mi libererà da me stesso, mi aiuterà a impedire che ‘esso’ (la mia macchina) dica o pensi o senta o faccia cose che altre parti di me, di cui mi fido maggiormente, ritengono indesiderabili. Questo è l’atteggiamento di un alcolizzato o un tossicodipendente che si affida a una cura e ne accetta le limitazioni - prima di tutto non bere e non assumere droghe, poi tutti gli altri comportamenti che potrebbero avvicinarlo allo stato in cui desidera bere o trova più naturale farlo. Questo è l’atteggiamento di Ulisse che sa di non essere diverso dagli altri umani, sa che soccomberà al canto delle sirene, e architetta quindi un ‘esercizio’ - una limitazione - perché questo non avvenga.

In questi cinque anni di continua interazione con chi ci segue ho verificato che esiste un’altra importante divisione, interna a coloro che già conoscono l’idea dei molti ‘io’: quelli che ci credono e quelli che non ci credono; quelli che la comprendono, che sanno di avere questa profonda frattura interna, e quelli che hanno sì letto dell’idea, ma non pensano che si applichi a loro, o non lo ricordano. Quest'ultimo gruppo costituisce la maggioranza di chi ha una conoscenza teorica, più o meno estesa, più o meno superficiale, ma non la connette alla propria vita.

Inoltre, se ci si pensa, proprio il fatto che siamo composti da tanti ‘io’ implica che, alla lettura dell’idea che dice che siamo tanti ‘io’, alcuni dei nostri io la comprenderanno; altri non saranno in grado di comprenderla, e quindi quando ci capita di essere in quegli io, letteralmente, non la conosciamo; e infine un gruppo di io che si ribella all’idea e crede fermamente di rappresentare un essere unificato. Questa è la nostra povera condizione, così frammentati che ci è difficilissimo ricordare che siamo frammentati - e bisogna che qualcuno o qualcosa continuamente ce lo ricordi.

Abbiamo oltre seimila lettori. Difficile pensare che anche solo la metà di essi abbia letto il messaggio di benvenuto, dove chiariamo alcune importanti premesse e spieghiamo in che modo questa pagina è diversa da una tipica pagina Facebook. Difficile presumere che la maggior parte ci legga con continuità, apprendendo quindi gradatamente e facendo proprie via via certe nozioni. Quello che probabilmente succede a molti è che ci leggono occasionalmente, e ogni post viene ricevuto fuori contesto, senza la conoscenza di idee fondamentali che stanno dietro ad esso - e quindi, inevitabilmente, travisato. Questi sono i limiti del mezzo, e della poca capacità di attenzione umana. Scrivendo qui, noi amministratori accettiamo che molti potranno afferrare ben poco di ciò che offriamo.

Recentemente è stato proposto un esercizio che personalmente considero molto avanzato, probabilmente troppo per questa pagina: quello di non gesticolare mentre si parla. L’esercizio ha sollevato alcune proteste e obiezioni, principalmente legate alla grande importanza che si attribuisce alla comunicazione non verbale, al ben noto fatto che questa costituisce la parte di gran lunga maggiore di ciò che comunichiamo, e via dicendo.

Queste obiezioni sono ‘io’, che sottintendono uno o più dei seguenti punti:

- Ho letto della comunicazione non verbale e non intendo rinunciare a comunicare attraverso di essa. Dato che ho letto che questa costituisce il 70% o più della comunicazione, l’idea di farne a meno per una settimana mi inorridisce

- Ritengo fermamente che parlare senza gesticolare limiterà la mia comunicazione, e non sono disposto a rinunciare a questa limitazione

- Ritengo che sia principalmente questione di efficienza: del modo migliore di esprimermi e farmi capire

- Ritengo che la parte non verbale della comunicazione vada quindi incoraggiata e amplificata, altro che inibita

- Ritengo di dover essere io a decidere sempre e comunque come comunicare.

Queste obiezioni presumono che io non sappia - o non ricordi - che sono diviso in tanti ‘io’, e che questo è il mio problema principale, la mia prigione, la mia assenza di libertà. Che quando gesticolo, esprimo sì molto di più di quello che le mie parole dicono, ma in maniera del tutto inconsapevole. (È proprio grazie a questo gesticolare che posso ad esempio comprendere che qualcuno che mi sta dicendo “Ti amo”, in realtà mi odia. Solo che lui non si accorge di ciò che sta comunicando, e forse nemmeno della complessità di quello che prova).

Le parole scaturiscono inevitabilmente dal centro intellettuale, così come i movimenti dal centro motorio. Ma il centro intellettuale e quello motorio sono spesso i ‘servitori’ degli altri centri, che sono i mandanti. Il centro istintivo ad esempio farà sì che il centro motorio apra il frigorifero per prendere del cibo, e via dicendo.

Il centro intellettuale è di gran lunga il più lento dei nostri cervelli: 30.000 volte più lento dei centri istintivo e motorio, a loro volta 30.000 volte più lenti del centro emozionale. Mentre per così dire ‘cammino a passo lento’ esprimendo a parole qualcosa col centro intellettuale, i centri istintivo e motorio sfrecciano in macchina a gran velocità e lassù in alto, il jet del centro emozionale doppia la velocità del suono. E tutti questi cervelli, mentre parlo, non smettono di comunicare, ognuno a modo suo, ognuno i suoi contenuti, ogni parte all’insaputa delle altre - attraverso espressioni facciali, gesti, energia. (Per non parlare del centro sessuale, che fa fare a tutti gli altri cervelli ignari quello che vuole lui).

Posso sperare di cominciare a capire qualcosa del gioco incredibilmente complesso di queste parti velocissime con un semplice mezzo: fermare il gesticolare. Mettendo i bastoni tra le ruote della macchina, posso cominciare a vederne il funzionamento, poiché queste parti non rinunceranno così facilmente a esprimersi e cercheranno di farlo con ogni mezzo.

È un esercizio potente, che porta a molte osservazioni. Giusto per citarne una, ho visto che inizialmente uso il centro motorio per brevità di comunicazione (“Ho preso un pesce grosso così”), ma tempo un paio di secondi e ne sono io stesso ipnotizzato, comincio a “credere” alle mie mani che misurano il pesce e comincio a seguirle come davanti a uno spettacolo di marionette. La mia espressione intellettuale ne verrà quindi da quel momento mutilata, ridotta a espressioni motorie. Inizialmente sono le mani che obbediscono alla mia mente; ma presto è la mia mente che obbedisce alle mie mani, si esprime in modi più veloci e rudimentali, comincerò ad abbreviare e a semplificare sempre più. La qualità del mio ragionare decade.

Centinaia, migliaia di simili osservazioni sono possibili. L’idea che sono diviso in molti ‘io’ diventa improvvisamente più pratica e più vivida.

Temo che facendo l’esercizio l’efficacia della mia comunicazione ne soffrirà? (Spoiler da chi ci ha provato: non è così. Semplicemente, alcune parti saranno inibite; altre accentuate). Ma anche se l'efficacia fosse pesantemente minata, sta comunque a me decidere se - per una settimana - tengo più a scoprire come funziono o all'idea che continuando a gesticolare mi esprimerò meglio.

Per anni sono stato abituato a parlare in pubblico per lavoro. Dopo aver conosciuto l’idea di essere presenti, provandoci, non riuscivo a essere presente e parlare; mi ammutolivo. Certamente il provare a essere presente ha ridotto o impedito le mie capacità comunicative, per lungo tempo. Ho dovuto reimparare a parlare da quello stato, è stato faticoso, ha richiesto un periodo molto lungo e ancor oggi il risultato non è garantito. Ma sul piatto della bilancia stanno due cose: una per me insignificante, l’altra importantissima. Nel mio lavoro attuale mi capita quotidianamente di ripetermi e ricordarmi che la maggior parte delle scelte non è tra ciò che è bene e ciò che è male, ma tra ciò che è bene e ciò che è meglio. Valuto maggiormente questo io, quello ad esempio che dice che muovere le mani è più efficace, o il mio lavoro spirituale?

Ci sono corsi che insegnano a gesticolare per parlare in pubblico più efficacemente e mantenere l’attenzione del pubblico. Questi corsi poggiano su un uso semi-intenzionale del centro motorio per sottolineare certe idee, per non permettere che la gente si distragga troppo facilmente. In altre parole, si tratta di abbassare il tono di una argomentazione, portandola dalle parti intellettuali dei centri a quelle emozionali e motorie: le regine e i fanti. Abbassando il livello di un discorso, si ottiene certamente più attenzione, si ha più successo. (Similmente, molti manuali e libri di saggistica al giorno d'oggi sono ridotti a pochi brevi punti, con un linguaggio iper-semplificato che li fa assomigliare a certi libri per bambini). Siamo costretti a uno sforzo costante per seguire i re dei centri, mentre regine e fanti, per definizione, sono più facili da seguire: è proprio questa la natura del sonno, poter essere svolto e seguito in modo automatico, senza intenzione. Anche noi, in questa pagina, potremmo avere molti più follower se decidessimo di abbassare il tono del nostro discorso - ma cosi facendo, lo neutralizzeremmo e renderemmo inutile. Vogliamo comunicare in modo gradevole o risvegliare?

Quando assistiamo a un evento, diciamo una conferenza, e qualcuno ci parla di idee spirituali come la presenza, possiamo facilmente verificare da dove parla. Gesticola, fa battute, sta cercando di intrattenerci? In quale stato desidera che siamo mentre ascoltiamo, a quale stato ci conduce? In questo modo sarà semplice distinguere chi semplicemente parla della presenza e chi porta verso la presenza.

Seguire il filo di un discorso dai re dei centri è difficile. Ci si stanca, pochi sono abituati, non tutti seguiranno.

Parlare dai re dei centri è ancora più difficile.

Parlare con presenza utilizzando i re dei centri è tra le imprese più difficili che una persona possa tentare; e l’esercizio del non gesticolare crea delle condizioni formidabili per poterlo fare, poiché viene a spezzare una grande varietà di modi meccanici con cui la nostra macchina, che vuole riposare, cerca di abbassare il tono della percezione, del pensiero, e conseguentemente della comunicazione.

È bene inoltre ricordare che gli esercizi funzionano quando falliscono: nel momento in cui io vedo la mia mano muoversi (ma come? Senza che io abbia voluto)? È lì che possono accadere due cose: vedere la parte di me che non ricorda o non vuole sottostare all’esercizio; e poter usare l’energia della sorpresa e del disappunto per essere presente.

Le obiezioni a un esercizio fanno parte del pacchetto naturale delle condizioni che questo esercizio crea. Non sarebbe un esercizio se non mobilitasse ‘io’ opposti in me. È appunto quello il materiale che sono invitato ad osservare e, se ho guadagnato abbastanza controllo sulla mia macchina, a rimuovere.

Ulisse non è libero dalla legge per cui tutti gli uomini sono soggiogati dal canto delle sirene, e lo sa. Chiede di essere legato, che gli altri siano fatti sordi. Crea una seconda legge, una limitazione a cui sottoporsi, che lo libera dalla prima.

Le sirene, va detto, sono i nostri molti ‘io’, che incantano, sono in grado di attirare attenzione, di affascinare: ma uccidono. Si tratta sempre della stessa antica questione: credere ad essi, o separarsi da essi. Essere, o non essere.

Il mio maestro ha detto: “A quali io bisogna credere? A nessuno.” È il livello dei molti 'io' che è inaffidabile, a prescindere dal loro contenuto.

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