Qualche tempo fa, forse un paio d’anni, vidi circolare in Internet un testo attribuito a Lewis Carroll, l’autore di Alice nel paese delle meraviglie. (Ne scrivo perché ho rivisto da poco il testo in circolazione e mi è tornato in mente).
Dato che Lewis Carroll è un uomo conscio e una delle figure che ispirano la scuola di cui faccio parte, mi è capitato di studiarlo. L’ho letto in italiano e in inglese, ho ricercato l’origine di certe sue espressioni e così via.
Mi fu subito chiaro che quel testo non era di Lewis Carroll, né poteva esserlo. Era una delle sempre più frequenti false attribuzioni che circolano in rete - basta copiare e incollare qualcosa che qualcun altro ha scritto, senza conoscere o verificare, e il gioco è fatto - ed è qui utile ricordare la definizione di ‘menzogna’ da parte di Gurdjieff: parlare di ciò che non si conosce.
Queste false attribuzioni, ne avrete viste anche voi, sono sempre meno credibili e sempre più comiche. Possono ad esempio contenere anacronismi, nozioni o modi di rappresentare la realtà che Aristotele o Leonardo non potevano abbracciare; o anche anacronismi per così dire verbali, come una frase ‘di Nietzsche’ che contiene la parola ‘standard’, concetto che dubito chiunque abbia praticato nella sua epoca - parola che necessariamente pone la frase in questa epoca, oppure rivela una traduzione disastrosa.
Certi dettagli sono enormemente rivelatori, un po’ come accade in certi film in costume ambientati, che so, nell’antico Egitto, dove però tutte le facce, le espressioni, i trucchi, le acconciature, i dialoghi e le posture gridano che il film è stato realizzato a Hollywood tra il 1950 e il 1960.
Ho quindi scritto a chi aveva postato questa citazione falsa, scrivendo “Guardate che non è Lewis Carroll.”
Ne nacque uno scambio, che presto diventò polemico. Tralascio tutti i passaggi, arrivando alla conclusione. La persona mi scrisse che sì, poteva anche magari essere una falsa attribuzione, ma quello che importava è che si trattava di una vera perla di saggezza, un insegnamento prezioso, che venisse da Lewis Carroll o da Peppino Vattelapesca poco importava. Come mai mi indignavo tanto?
Già, come mai mi indignavo tanto? Questa parte della domanda è personale, e utile per il mio lavoro. Indignarsi è un’emozione negativa. Tuttavia, si può affermare che qualcosa è profondamente sbagliato anche in assenza di emozione negativa. Ora sono tranquillo e continuo a pensare che postare quel testo ponendo Carroll come firma sia un atto che conduce a conseguenze negative di una certa portata.
Il punto principale è che Lewis Carroll è un uomo conscio.
I suoi scritti si collocano in un punto molto alto, a cui io, crescendo, aspiro a salire. Rileggendolo di anno in anno, scoprendo nuovi livelli di significato, ho un senso della misura di quanto sono cresciuto.
Un’opera prodotta da un artista conscio è un legominismo (o legamonismo, secondo altre traduzioni dell’inglese legominism). Questo termine fu introdotto da Gurdjieff per spiegare che certe espressioni simboliche sono leggibili da qualsiasi uomo, a seconda del livello in cui si trovi o dello stato in cui si trovi in quel momento. Sono come una scala che si può utilizzare per ascendere.
Il falso testo di Carroll scritto da Peppino Vattelappesca non possiede questa natura magica. È un testo scritto da un povero ‘uomo numero 1, 2 o 3’, che non porta da nessuna parte.
Per una persona a cui capitasse di leggerlo, vedo due possibili conseguenze negative:
- La persona, che magari ha sentito dire che Lewis Carroll è un uomo conscio, o comunque qualcuno da cui c’è molto da imparare perlomeno sul piano psicologico, prende la sfilza di banalità di quel testo come un insegnamento profondo.
- La persona che ha sviluppato un profondo centro magnetico, quindi in grado di ‘fiutare’ la profondità delle impressioni che arrivano, ma magari giovane e inesperta, o di scarsa cultura, legge che il testo è di Carroll e allo stesso tempo ne riconosce la superficialità. Non può che concludere che Lewis Carroll è un autore superficiale e sopravvalutato, e non giungerà a leggerlo e a sperimentarlo personalmente.
Mettere sullo stesso piano quel testo e un testo autentico dello stesso autore equivale a mescolare sostanze che appartengono a mondi diversi; e alla fine dimostra che la persona che lo fa, anche quando legge l’originale, non ne assimila che le scorie accessorie. Il risultato è come fare una spremuta, gettare il succo e mangiare le bucce.
Questa epoca rigetta o omogeneizza il difficile e venera il veloce. Veloce diventa rapidamente superficiale; superficiale diventa rapidamente falso. Si scatena un processo che scivola progressivamente verso l'inferiore. Alcuni autori consci ma, per diverse ragioni, difficili (mi viene in mente Hafiz, sul quale mi sto rompendo la testa da un paio di decenni), diventano popolari grazie a traduzioni facili, ma lontane dall’originale.
Ancora una volta: meglio sapere di non sapere, che credere di sapere.
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