Dopo qualche decennio in cui ho provato a raffinare la mia capacità di vedere e di vedermi, mi trovo di fronte a una serie di paradossi.
Da una parte, lo osservo sempre più, i meccanismi che ci tengono addormentati sono di una semplicità sconcertante. Non siamo poi così diversi da un cane, contento quando gli dai un biscotto o gli apri la porta per una passeggiata, o concedi attenzione: offriamo soltanto qualche variante in più; nemmeno tante.
Ripetiamo e ripetiamo nella nostra vita un numero ristretto di scene; riproponiamo sempre le stesse situazioni, recitiamo le stesse parti come un attore specializzato in un certo tipo di ruolo, come la spia malvagia, o lo stupido che non si accorge di nulla in una serie di scenette comiche.
Tuttavia riusciamo a non vedere queste scene che viviamo e queste parti che interpretiamo (per nostra scelta, o dovrei dire meglio a causa di qualche nostra tendenza sulla quale possiamo ben poco). Non ci accorgiamo per nulla che ogni volta proprio in quel buco, andiamo a sbattere (la negatività è sempre accompagnata e sorretta da respingenti, possiamo dire che è un modo complicato e dispendioso per rifiutarsi di vedere la realtà). Non ce ne rendiamo conto, un po’ per via dell’identificazione, che talvolta ci rende invisibili anche le montagne. Un po’ a causa della apparente varietà che certe ripetizioni presentano. Potrei ad esempio sperimentare la stessa colpevole trascuratezza nei confronti di un oggetto, di un ambiente, di un’attività, di una persona, di una postura, di un sentimento, di una professione, di un bisogno, e non riconoscere come si tratti della stessa scena, dello stesso ruolo giocato davanti a fondali differenti.
Passano i decenni, e scopro sempre nuove forme di meccanicità. Col passare del tempo sembrano aumentare; mentre probabilmente è semplicemente la acuita capacità di osservare che le pone allo scoperto. Nelle mie statistiche personali, il numero delle scelte che ho effettuato consapevolmente diminuisce di molto; quello delle svolte obbligate da questo o quel tratto della mia natura, aumenta fino a prendere quasi tutto lo spazio della mia esistenza. Da un certo punto di vista la sensazione è che la meta si allontani invece di avvicinarsi. Sono ad esempio decenni che mi ripeto, davanti a una situazione sgradita, grande o piccola: “Non permettere che questa cosa arrivi a toccare il tuo centro emozionale.” Invece, forse non oggi ma magari domani, forse non quando sono in forma ma quando sono stanco, non quando il resto va bene ma quando a questa si aggiungono altre sgradevolezze, quando la fase lunare si acuisce, forse non proprio quella cosa ma un’altra più violenta o più sorprendente, ecco che il centro emozionale viene invece toccato. Verrebbe da dire che, per quanto si stia in guardia, un modo si trova sempre.
Tali apparenti sconfitte non rappresentano punti morti nel lavoro: al contrario, posso adesso osservare che queste esperienze, che tempo fa avvenivano nel sonno e nell’identificazione, oggi sono accompagnate da uno sguardo vigile, una specie di videocamera sempre, o quasi sempre, accesa. Persino quando l’esperienza sgradevole arriva a graffiare il centro emozionale, ecco che questo “occhio” non indietreggia, non scompare, non abbassa lo sguardo: continua a registrare, offrendomi informazioni sul mio comportamento meccanico che mai avevo saputo vedere, proprio a causa del fatto che, negativo, non potevo e non volevo vedere.
“Angelo e marionetta, adesso sì c’è spettacolo”, scrisse, con la sua precisione chirurgica, Rainer Maria Rilke. Questa sensazione di essere entrambi, la marionetta che si agita e l’angelo che la osserva separato e curioso, è sempre più familiare.
E una volta conosciuto l’angelo, questa entità che in un primo momento sembra aliena, un marziano che entra nel corpo e se ne impadronisce, ma che col tempo si riconosce invece come quanto di più familiare e intimo ci possa essere - il Padrone che ritorna a casa; lo smemorato che riacquista la memoria; il fuoco che si riaccende; la luce che ritorna - si verifica che non è mai stata lontana, non è mai lontana, non è mai inaccessibile e misteriosa. Basta lasciar cadere un paio di sacchi di zavorra ingombrante ed eccola già qui.
Il lavoro è sia lungo e difficile, che immediato e semplice.
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