
Mi sembra che l’espressione ‘prendere spazio’ sia meno usata in Italia rispetto ad altri paesi; ma negli Stati Uniti, nazione prevalentemente motoria e che quindi interpreta i fenomeni e li descrive utilizzando modelli motori, la sento spesso.
La persona che ‘prende spazio’ è quella che non si può fare a meno di notare: è il cliente che al ristorante chiede un sacco di eccezioni, di cotture speciali, di piatti che nel menu non figurano; è quello che nel gruppo spicca per i suoi vestiti, i suoi comportamenti, che ha più esigenze, che fa sfoggio di maggiori intemperanze. Le persone che prendono spazio sono elementi indispensabili a un romanzo o a un film: spesso, i protagonisti. Senza di essi, le storie ‘non si muovono.’
Negli anni ho osservato in molti amici studenti che il processo dal lavoro di scuola verso il risveglio è fatto anche del prendere progressivamente meno spazio. Quelli che conoscevo come intemperanti, irascibili, confusi, incontentabili e via dicendo lo sono, nel tempo, sempre meno. Col risultato che diventano sempre più invisibili, sempre più, in un certo senso, ‘niente di speciale’.
Alcuni tipi, i più passivi, già per conto loro e meccanicamente non prendono spazio: non parlo qui di quelli. Parlo di coloro che ho visto in certe situazioni ruggire come leoni, o piangere, oppure sollecitare dinamiche caotiche e velenose che coinvolgono tante persone; e ora, in analoghe situazioni, eccoli tranquilli, piuttosto invisibili. Soltanto chi come me li ha visti in passato può notare il cambiamento, anzi la rivoluzione avvenuta.
Può essere interessante per ciascuno domandarsi: quanto spazio prendo nell’ambiente? Quanto ho bisogno che mi si noti? Quanto mi sento importante in relazione a chi mi sta intorno? Quali sono le cose in me che principalmente occupano il mio tempo e la mia energia? Passioni, attività, persone, circostanze, idee, principi. Dove mi indigno maggiormente, mi commuovo di più, mi agito, mi esalto o mi deprimo? Quelli sono gli io che prendono spazio in me. Parte del lavoro sarà sostituirli con i cosiddetti ‘io di lavoro’, ovvero io che sono generati con lo scopo di favorire la presenza.
Per fare un esempio, di fronte alla persona che più detesto, alla situazione che maggiormente mi indigna, all’esposizione di un’idea contraria a quello che penso, a una ruota bucata, a un semaforo rosso, a uno spigolo in cui vado a sbattere, a persone che reputo incapaci, in malafede, sgradevoli, dico a me stesso: “Pace”, e provo a far sì che l’energia negativa che sento non sfoci in comportamenti esterni, ma rimanga in me come prezioso (anche se scomodo) carburante per il risveglio. Si tratta di non credere a questi io e di non dare loro spazio. Questi, a loro volta, sentendosi ostacolati alzeranno la voce e si creerà in noi una guerra civile, quella che Gurdjieff definì la lotta tra il sì e il no.
Una buona parte di questi io di lavoro avrà l’effetto di far cadere una manifestazione in cui di solito cadiamo prigionieri, come uno sbotto di rabbia e di indignazione. Se avremo successo, chi ci sta intorno non vedrà nulla. In assenza della manifestazione così eclatante, non c’è più nulla da vedere (anche se per noi ci sarà molto da vedere, perché questa energia risparmiata e riutilizzata si manifesterà come presenza intensa e chiarezza di visione, e certamente noteremo tanti aspetti che avevamo respinto, ovvero rifiutato: a questo serve la negatività, a non vedere).
In ciascuno di questi individui roboanti che ho conosciuto alcuni gruppi di ‘io’ nel tempo hanno trovato meno spazio. Voci a cui si credeva, non vengono più credute. Questo fa parte di un necessario riequilibrio della macchina, di un cambiamento che la renda compatibile con il risveglio.
Negli anni di gioventù, mentre ruggivano e strepitavano portavano a sé, assieme a situazioni sempre drammatiche e sopra le righe, anche molti ammiratori e seguaci. Ora che se ne stanno in silenzio, tranquilli, nessuno li segue; io li ammiro e li amo per ciò che il loro essere ha conquistato.
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