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Immagine del redattoreIl Ricordo di Sé

Quando il somaro si impunta

Qualcuno ricorderà un passo in cui Gurdjieff parlava dei briganti. Questi, scriveva, attendono per ore acquattati dietro una roccia che passi qualcuno, per derubarlo. Sotto il sole cocente, al gelo, con mosche che ronzano attorno e si posano in faccia; tuttavia non muovono un muscolo, per non farsi scoprire.

Gurdjieff faceva notare che, pur non essendo persone ‘buone’, questi briganti stavano guadagnando qualcosa per se stessi - esattamente la stessa sostanza che permette ai ‘santi’ di fabbricarsi un’anima.

Questa assenza di moralismo era tra gli elementi che più mi attraevano in Gurdjieff. Ora ne conosco uno dei motivi: è perché anch’io, come lui, ho il mio centro di gravità nel cervello istintivo, ne comprendo quindi il linguaggio, mi risuona senza sforzi.

Portando ad esempio il brigante, Gurdjieff separava l’idea di crearsi un’anima dall’idea ordinaria di bontà; lo spirituale dal religioso. Eppure, la maggior parte dei ‘Cercatori di verità’, dei compagni che con lui avevano sperimentato e condiviso la ricerca spirituale finirono per scegliere, come si espresse lui, ‘la clausura’. E moltissimi dei suoi esempi si riferivano a contesti religiosi. Cosa avevano dunque in comune il monaco rinchiuso in una cella che prega tutto il giorno e il brigante che attende di poter sparare al primo mercante che passa?

Entrambi hanno imparato a resistere. Alle mosche, al freddo, al caldo, ai pensieri ‘cattivi’, alle distrazioni. Hanno sviluppato qualcosa di più permanente degli io, ciascuno dei quali non dura che tre secondi ed è seguito da un altro, incontrollato e casuale. Hanno portato nel loro essere più permanenza.

Il monaco non cessa di avere pensieri cattivi, tentazioni; né il brigante smette di provare caldo, o fastidio per le mosche: hanno però imparato a opporsi. Le tentazioni, le mosche, non sono che nomi per gli io: per essere più precisi, sono gli stimoli esterni a cui corrispondono risposte interne obbligate chiamate ‘io’.

Nel monaco, come nel brigante, comincia ad avvenire una separazione tra due esseri: il somaro, e l’uomo. Il sé inferiore, che risente e vorrebbe lamentarsi, reagire; e il sé superiore, che agisce non rispondendo allo stimolo, ma secondo uno scopo. Entrambi scelgono di porre la propria identità nell’uomo invece che nel somaro.

Per questo, nella tradizione cristiana, alla nascita di Cristo - il maggiordomo, il lavoro sulla macchina - la mangiatoia è riscaldata dal bue e dall’asino: i centri inferiori pacificati e addomesticati, che non si oppongono al lavoro. Per questo nei Vangeli Cristo entra a Gerusalemme in groppa a un asino bianco, cioè puro, passivo, privo delle solite bizze tipiche dei somari.

Prima che il somaro diventi bianco, passivo, mansueto, passerà molto tempo, molta lotta. Questo implica che entrambi, monaco e brigante, stanno soffrendo; ed entrambi stanno imparando a sopportare (e a utilizzare) questa sofferenza. A imporre al somaro di stare buono anche se non vorrebbe. Il Padrone sale in carrozza. (Quanto tempo ho perso pensando che l’obbiettivo fosse eliminare la sofferenza; che sarebbe cessata e mi sarei trovato in una specie di Disneyland, di vacanza piacevole. Non può essere così).

Nel percorso per arrivare a stabilire il proprio senso di identità nel Sé superiore ci sono molti ostacoli e molti accidenti. Il gioco non riesce sempre. Oggi sopporto le mosche per un minuto; domani per due minuti. (E, dopodomani, mi trovo al punto di partenza e non riesco nemmeno per un minuto). Oggi penso che ne valga la pena, domani voglio mandare tutto al diavolo. Chi me lo fa fare? Perché mai sto facendo tutto questo?

Il percorso di risveglio non è lineare. Lavorando su un aspetto della macchina, a dispetto delle nostre speranze di avvicinarsi a serenità e semplificazione dei problemi, si creeranno delle linee di resistenza che renderanno la macchina più forte, la negatività più aggressiva. Le forme di frizione più leggere, le negatività piccole, possono spesso essere eliminate semplicemente vedendoci più chiaro, grazie a semplici momenti di presenza. Tuttavia, non appena riusciamo a superare con successo un ostacolo, si presenta davanti a noi un altro, necessariamente più grande - proprio perché siamo cresciuti. Queste forme di sofferenza e negatività sempre più grandi, che ci danno una sensazione così forte che tutto sia inutile, che stiamo peggiorando, sono inevitabili - poiché il trasformare la sofferenza è uno degli elementi essenziali al risveglio. Niente sofferenza da trasformare, niente energia sufficiente ad accendere i centri superiori. Il somaro diventerà un toro, e il toro un drago. Il sé inferiore, stavolta nel senso della parte che attivamente si oppone alla presenza, tenterà strategie sempre più forti per scalzarla. E il drago, a sua volta, come nelle favole siede su un tesoro, imprigiona una principessa, che saranno nostri se lo sappiamo vincere.

Ouspensky scelse di parlare dell’Influenza C sempre con molto pudore; nei suoi scritti quasi non vi accenna. Sono certo che lo facesse per non alimentare fantasie selvagge. Una volta affermò che non ci viene mai amministrata più sofferenza di quanta ne possiamo reggere. Questo, a pensarci bene, implica la presenza di qualcuno che amministri questa sofferenza, o di una legge organizzata in tal senso da qualcuno. La sofferenza è uno dei doni che ci vengono portati affinché ci possiamo risvegliare.

La lotta è quindi sempre equilibrata, con un avversario sempre difficile, non importa quanto siamo cresciuti. Il che implica che spesso saremo sconfitti. La disperazione o la negatività prenderanno il sopravvento.

Scrive Hafiz, nel suo primo sonetto (di cui scrisse soltanto la seconda riga, la prima fu scritta da un altro):

Fai girare la coppa, o coppiere,

Ché l’amore sembrava facile un tempo, ma poi sono sopraggiunte complicazioni.

Ho scelto un’illustrazione di Leonardo particolarmente severa, su un tema molto usato nei dipinti: San Gerolamo. Questi era un importante uomo di chiesa, che in seguito si ritirò a pregare e fare penitenza nel deserto. Il suo volto è secco, simile a uno scheletro, a ricordare l’idea di morire prima di morire. Nei dipinti ricorre una serie di attributi: il sasso con cui si percuote il petto, a simboleggiare il lavoro sul centro istintivo; il cappello e la veste da vescovo lasciati da qualche parte, a ricordo del suo passato di uomo potente di chiesa; il libro, disciplina nel centro intellettuale, e il leone mansueto, a cui una volta aveva tolto una spina dalla zampa, come vittoria sui capricci feroci del centro emozionale. Uno stile di vita poco attraente, confrontato a quanto si vede nei social media, o ai sereni giovani sorridenti vestiti di bianco tipici della comunicazione di influenza B.

Ci sono giorni, ci sono periodi, in cui il somaro si impunta. Questi sono tra i più preziosi della nostra vita. È da questi che possiamo estrarre un vero benessere, che non è il benessere della macchina, e non è legato a nulla di esterno e impermanente.

This moment is the best the world can give

The tranquil blossom on the tortured stem,

scrisse la poetessa Edna St. Vincent Millay: Questo momento è il migliore che il mondo possa offrire; il bocciolo tranquillo sul torturato stelo.

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