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Rimuginare

  • Immagine del redattore: Il Ricordo di Sé
    Il Ricordo di Sé
  • 22 ott
  • Tempo di lettura: 6 min
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Qualche giorno fa abbiamo ricevuto una domanda in un commento, che chiedeva: “Come si fa a smettere con il rimuginio interiore che non mi abbandona neppure quando dormo.”

Quando scriviamo che siamo fatti di molti io, della durata di pochi secondi, e che questi io si avvicendano in modo involontario e continuo non scherziamo, né usiamo un modo di esprimerci iperbolico.


Alcune persone non si accorgono nemmeno di questo continuo rimuginio o commento interiore, tanto ne sono immerse. Già accorgersene è un segno di aver riconosciuto che in esso c’è qualcosa che non va, e di avere vissuto almeno qualche momento in cui la presa di questo rimuginio era meno forte.


Nessuno ne è immune. Anch’io, seduto a rispondere a questa domanda, devo lottare con diversi ‘io’ di preoccupazione. La vita è incerta, per tutti. Ostacoli si affacciano nel percorso di ciascuno. (La scrittura di questa frase è stata interrotta da una telefonata di lavoro che mi informa che la merce che il mio cliente attende con tanta urgenza, la cui puntualità è cruciale, è ferma in dogana per un controllo che nessuno sa quanto durerà).


Un’altra cosa che possiamo osservare (e che, forse, chi ha fatto la domanda ha già osservato) è che questo rimuginio, oltre ad essere sgradevole, è assolutamente inutile. Non risolve nulla: aumenta casomai la difficoltà, intensifica la confusione e lo stress. È un inutile malessere.


Ouspensky riportò che lo stato di immaginazione (ovvero il credere a questi io, ritenerli reali, avere il proprio senso di identità in essi) può anche avere una ragion d’essere, quando ha l’effetto di una piacevole droga; quando sogno ad occhi aperti tutte le cose che potrei fare se vincessi alla lotteria, o a come sarebbe la mia vita se ‘lei’ mi dicesse di sì. Ma l’immaginazione negativa - è questo il tema di oggi - essendo per giunta spiacevole, è ancor meno giustificata.


Occorre anche osservare che questi ‘io’ non sono reali. Non costituiscono una descrizione della realtà. Sono fatti di due cose:


1) un’abitudine appresa. Ho ‘imparato’ attraverso l’imitazione, diciamo da mio padre, che bisogna preoccuparsi continuamente, altrimenti non si è una persona seria.


2) l’espressione di un’energia che circola all’interno. Delle tante cose che potrei notare della realtà, mi soffermo su quelle negative, incerte, preoccupanti. Questo atteggiamento è ancestrale, poiché sono questi gli elementi che potrebbero costituire un pericolo per la mia vita. Tuttavia il nostro centro istintivo si prende tutto il potere e diventa un tiranno in noi, applicando lo stesso atteggiamento a qualsiasi evento, facendo scorrere fiumi di adrenalina e cortisolo anche di fronte a un graffietto nella vernice dell’automobile.


Questi io prendono un aspetto ossessivo, si ripetono notte e giorno, formando un velo che si sovrappone a tutto.


“Il rimuginio interiore che non mi abbandona neppure quando dormo” è quindi qualcosa di pervasivo, una corrente che mi avvolge interamente.


È quello che la quarta via, assieme a molte altre tradizioni, chiama ‘sonno’. O, più specificamente, ‘immaginazione.’ Ancora più specificamente: ‘Immaginazione negativa.’


A questo riguardo potrei rigirare la frase, dicendo in modo più esatto: ”il rimuginio interiore che mi abbandona solo quando non dormo.”


Le visioni che ci visitano durante la notte non si interrompono quando apriamo gli occhi; passano semplicemente in secondo piano, sopra di esse si deposita un altro strato, formato dalle impressioni dei sensi. Ma esse, nascostamente, continuano a influenzare il nostro modo di percepire e interpretare quelle impressioni.


Come farlo smettere? È come smettere di fumare, o di assumere droghe. Occorre una riprogrammazione totale.


La prima cosa che mi viene in mente, è: occorre lavorare sui ‘mattoni’ che compongono le nostre percezioni. Sostituire impressioni positive a impressioni negative.


Il nostro rimuginio è composto di io. Questi io si manifestano in associazione con altri io. Come i sogni notturni si alimentano di frammenti di immagini delle esperienze che ho vissuto, di ciò che ho letto o discusso, del film che ho visto, così il rimuginio durante il giorno deve necessariamente utilizzare il materiale che ho, per così dire, ingerito.

Una semplice strategia è, quindi, cercare di nutrirsi in modo quotidiano di impressioni positive e di qualità estetica: arte, natura, poesia. E di evitare quelle negative.


Per un ‘caso’ del destino, l’ultima impressione che ho ricevuto da quella scatola magica che è il telefono cellulare prima di andare a letto, è un breve filmato che raffigura il musicista Bobby McFerrin.


Qualcuno lo conoscerà. A un certo punto uscì con una canzonetta che ebbe grande diffusione: “Don’t worry, be Happy.’ (Non preoccuparti, sii felice).


La canzone elenca in modo leggero e spiritoso tutta una serie di di situazioni sgradevoli, consigliando sempre di rispondere ad esse con “Don’t worry, be happy.” È divertente, lascio il link al video qui: https://www.youtube.com/watch?v=d-diB65scQU


Guardandolo, potrete forse percepire un’energia leggera che davvero può arrivare a sostituire certe preoccupazioni.


Questo atteggiamento è tutt’altro che irresponsabile. Invece di drenare ossessivamente le nostre energie, le rinfresca e rafforza, rendendoci più in grado di affrontare ciò che deve essere affrontato - non con preoccupazioni all’interno della nostra mente, ma con soluzioni.

Ci sono diversi elementi legati a questo cantante che hanno relazione, diretta o indiretta, con l’argomenti di oggi. Intanto una curiosità: credo che pochi si siano resi conto nell’ascoltare questa canzone, che non ci sono altri strumenti o musicisti al di fuori del corpo e della voce dell’unico interprete: canto, suoni, percussioni create percuotendo il petto o la gola. C’è solo la sua voce, nient’altro.


C’è poi da dire che questa frase è la citazione da un uomo che il mio maestro ha indicato come conscio, l’indiano Meher Baba.


La frase completa suona più o meno così: “Do your best; then don’t worry, be happy.”

Questa frase, da sola, è sufficiente a guidare il proprio comportamento e atteggiamento per un’intera vita.


Ricordo un’intervista a Bobby McFerrin in cui gli si chiedeva se fosse un seguace del maestro indiano, lui negò; ma quel particolare messaggio gli sembrava un ottimo consiglio.

Citerò infine un episodio in cui vidi questo artista nell’insolita veste di direttore d’orchestra. Oltre ad essere famoso come cantante, oltre ad avere collaborato con vari musicisti di ogni genere, quasi sempre producendo lavori con una certa vena umoristica, è anche un musicista ‘serio’ e un direttore d’orchestra.


Ricordo perfettamente il momento. Ero a Los Angeles, in una sala da concerto. Accanto a me, una coppia di anziani coniugi, i più tradizionalisti che si possano immaginare: Completo, cravattino, abito lungo, e, diciamo così ‘puzza sotto al naso.’ Ricordo la loro espressione quando il direttore d’orchestra è entrato, con la sua pelle nera, i movimenti dinoccolati, le treccine rasta. Poi la bocca aperta quando questo direttore ha cominciato a muoversi con tutto il corpo, saltando e ballando, dando istruzioni acrobatiche con le mani, con la testa e coi piedi, invece che utilizzare i movimenti classici.


Ricordo, infine, la bocca aperta dallo sbalordimento di questa coppia, costretta dopo qualche minuto a riconoscere che l’esecuzione di quel concerto di Mozart era splendida, emozionante, rigorosa, eseguita benissimo, forse la più bella che mi sia capitato di sentire.

La prima immagine che la scatola magica mi ha invece offerto stamattina era uno psicologo che consigliava delle strategie per vincere i pensieri negativi. Un altro caso.


La sua ricetta consisteva nel muovere la mano davanti agli occhi, a destra e a sinistra, ripetendo alcune parole, per evocare e poi abbandonare per sempre certe fissazioni. Una sorta di auto-ipnosi, designata a sostituire certe fissazioni negative.


Poiché dovevo scrivere questo post, mi è subito venuto in mente il segno della croce.

Ricordo Gurdjieff che parlò dell’atleta, diciamo il calciatore, che entra in campo facendo il segno della croce. Un’immagine tipica che a me, cresciuto in ambiente non propriamente religioso, è sempre sembrata superstiziosa e un po’ ridicola.


A parte la considerazione che nel segno della croce è contenuto molto: il ‘Padre’ che corrisponde al terzo occhio e il ‘Figlio’ che tocca il plesso solare, e poi quella linea orizzontale che significa molte cose, ma una di queste potrebbe essere un’azione svolta nel tempo - sembra evidente che, come Gurdjieff rilevò, il calciatore si sta raccogliendo, sta dicendo a se stesso: unifico le mie parti per dare il meglio in questa situazione di sfida.

In ambito di scuola esistono diversi ‘io di lavoro’ designati a intercettare e sostituire questi io negativi nel momento in cui appaiono.


Aggiungo che, come ripetiamo spesso, la nostra identità non risiede negli io, quali che siano, né negativi e nemmeno positivi - noi siamo altro.


Sostituire nuove abitudini, popolare quello che alcuni chiamerebbero il subconscio di elementi nuovi e positivi, nutrirsi di bellezza invece che di impressioni miserevoli, apprendere da uomini consci come Meher Baba, Epitteto o Marco Aurelio il giusto atteggiamento verso le cose della vita.


Affidarsi a un lavoro di scuola.


Ecco la ricetta.

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