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Immagine del redattoreIl Ricordo di Sé

sulla questione della vanità

Scrivo questo post a seguito di alcuni commenti.

La vanità, ripeto quanto affermato in un altro post, è un grossolano errore di scala, in cui non consideriamo le cose oggettivamente, e rendiamo gigante la nostra minuscola esistenza.

Ho ancora in mente, da bambino, una mia zia adolescente e innamorata che passava il suo tempo allo specchio, disperandosi per la fessura tra i due incisivi, appena un po’ più larga del normale. Piangeva perché ‘lui’ non mi vorrà mai (‘Lui’ la sposò).

Il nostro centro emozionale è capace di ridurre o ingrandire qualsiasi cosa, come il fungo di Alice. Mentre vediamo in televisione la notizia di una sciagura, possiamo ancora pensare, in quello stesso momento: “Gli piacerò di più coi capelli raccolti?”

La vanità ci pone artificialmente al centro del mondo.

È una potente alleata dell’immaginazione; insieme ci convincono che siamo reali così come siamo.

Moltissimo di ciò che facciamo, è vero, si deve alla vanità. Anche azioni giuste, pensieri sensati, umiltà apparente.

Per questo l’esercizio di questa settimana invita a fotografare gli istanti in cui ci scopriamo in vanità. Se non ci si dimentica di farlo, e se non entrano in azione dei respingenti, si può essere certi che un esercizio come questo porterà molte osservazioni.

L’esercizio probabilmente ci mostrerà che parecchie cose che crediamo di fare per ragioni oggettive, sono invece dovute al nostro desiderio di apparire belli, buoni, intelligenti, capaci e giusti.

Questo non ci autorizza però a concludere che qualsiasi azione umana è dovuta a vanità.

Né che la vanità stia nelle azioni (sta nelle motivazioni).

Uno degli esercizi interessanti nella mia scuola è che per certi eventi, definiti ‘formali’, ci si veste in modo formale, con giacca e cravatta, gonne e abiti. Per alcuni eventi speciali, addirittura ‘black tie’, ovvero smoking e abito lungo.

Per alcuni studenti - me compreso - all’inizio ciò è così lontano da ciò che si considera ‘normale’ e abituale, che l’esercizio produce shock e osservazioni interessanti.

Perché mi dovrei vestire così? col tempo diventa, cosa succede quando mi vesto così?

Una delle prime cose che osservai è la reazione della gente incontrata per strada, casualmente: mi davano del lei, trattavano con un rispetto inconsueto, soltanto sulla base di un’apparenza (questo non solleticava affatto la mia personale vanità, basata su altri presupposti, incluso quello di presentarsi in maniera intenzionalmente disordinata, da ‘artista’).

Vidi inoltre come si può fare un esercizio senza farlo veramente: mettersi sì giacca e cravatta, o un abito, ma senza prestare attenzione ai colori, alla qualità dei tessuti, al taglio. Obbedire alla scorza esterna senza assaporare il succo. (Anni dopo, vivendo negli USA, ho assistito a un esercito di lavoratori per cui giacca e cravatta è un’uniforme, come bancari o venditori, portata in un modo così sciatto da denunciare una segreta personale ribellione alla formalità, e a produrre di fatto un effetto negativo).

la bellezza si impara.

Che la bellezza è un nutrimento, si impara.

Si impara a comporre dei fiori in un vaso. Si impara a tornare a loro con gli occhi di tanto in tanto, per mantenersi in uno stato. Si impara ad apprezzare quello stato, ad abitarlo più spesso, a conoscerlo.

Si impara ad accostare un abito, una camicia, una cravatta. A comprendere il significato della formalità - anche se, come me, si tenderebbe all’informalità assoluta.

Si impara a provare a tenere delle posture ‘nobili’ e dignitose. Non stravaccati su un divano o crollati come valanghe a ridosso di una parete. Si impara ad usare parole e frasi nobili. A cercare una certa eleganza nell’espressione intellettuale.

Si impara ad apprezzare lo stato interiore che questi sforzi portano.

Si impara l’alchimia del momento: quanto più le impressioni saranno alte, tanto maggiore la motivazione ad essere presenti.

La quarta via si svolge in assenza di rituali e forme riconoscibili. Ma usa qualsiasi cosa torni a vantaggio dello stato. Due persone davanti a noi, apparentemente identiche: eleganti, formali, contenute, un calice di vino in mano. Una è persa nella vanità , l’altra è un monaco - perlomeno finché si ricorda di esserlo.

Il discrimine è, alla fine, sempre quello: mi interessa essere presente?

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