Sulla risoluzione dei conflitti
- Il Ricordo di Sé
- 4 giorni fa
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Torno su temi che ho già toccato, anche per via di diversi commenti che mi hanno fatto pensare che l’idea di considerazione - esterna e interna - non sia chiara a molti.
Spesso vediamo contenuti sui social media che hanno un tono di sfida o di accusa, sottintendendo con un orgoglio che sconfina con la rabbia che “io” ho imparato a farmi rispettare, “io” non mi illudo come capita agli altri, “io” so cos’è l’integrità a differenza di molti che mi circondano e tradiscono la mia fiducia, “io” ho imparato a non essere ingannato dai malvagi, “io” sono finalmente disinfestato dalle persone “tossiche.’
Di queste tanto citate persone tossiche ho già parlato. Ribadisco che per la mia comprensione, quando c’è conflitto, nella maggior parte dei casi l’altro è un poveraccio confuso come me, ignorante come me di tante dinamiche psicologiche, con caratteristiche individuali che fanno sì che “tocchiamo i bottoni” l’uno dell’altro, scatenando situazioni negative e di conflitto. Come il valzer o il tango, il conflitto è un ballo di coppia.
Nella mia vita sono arrivato a considerare un paio di persone - giusto due o tre - come vittime di una psicopatia per cui non possono fare a meno di tormentare le altre persone, ricreando dinamiche sempre uguali che portano sofferenza a chiunque capiti nel loro raggio d’azione (ma anche così, devo ammettere che io stesso, quando sono addormentato, sono causa di dinamiche ripetitive che portano sofferenza a chi ha la sventura di essermi vicino. Non sono poi così diverso da loro, si tratta di variazioni di frequenza e intensità del fenomeno, non di essere fatti di una natura completamente diversa).
Cosa faccio personalmente nei confronti di queste persone? Per quanto posso, cerco di non passare tempo con loro, dato che l’ammontare di energia da spendere per neutralizzarle è ingente. Ma quando non posso evitare questa vicinanza?
Per rispondere a questa domanda prenderò un giro largo, citando uno di questi messaggi accusatori che vedo di tanto in tanto su Facebook.
Traduco dall’inglese:
“La manipolazione è quando ti incolpano per la tua reazione al loro comportamento tossico, ma non discutono mai la mancanza di rispetto che l’ha innescata in te.”
In questa frase ci sono tutti gli elementi che ho citato prima, e che posso riassumere in una frase ancora più breve: “Guarda cosa mi hai fatto fare.”
La mia reazione rabbiosa è colpa tua. Non solo, ma addirittura ora tu osi incolparmi del fatto di non accettarla supinamente, ma di farmi valere.
Se avete letto il recente post di Giacomo su Considerazione interna ed esterna, qua siamo completamente nel campo di quella interna. Il danno è stato fatto a me, io mi sento male, io sono la vittima. Io, io, io.
Posso sentire l’obiezione che si forma nella tua testa: “Potrò ben avere il diritto di difendermi, di farmi valere, ci sono casi indubbi di prevaricazione.”
Esistono dei casi indubbi in cui qualcuno ci prevarica. Questi casi includono sempre una disparità di potere. Una guardia nei confronti del prigioniero, un ricco nei confronti di un bisognoso, un adulto nei confronti di un bambino. (Proprio oggi si celebra la Liberazione, la fine di un conflitto in cui c’erano indubbiamente prevaricatori e prevaricati).
Nella maggior parte dei casi, però, le situazioni a cui ci riferiamo avvengono tra due adulti dotati di una certa indipendenza oggettiva. Due sposi, due amici, due colleghi, due sconosciuti. È su queste situazioni che voglio concentrarmi.
Ipotizziamo il caso più estremo, quello in cui “lui” sia effettivamente uno psicopatico, impegnato in qualche pratica che ha come scopo il soggiogarmi e farmi soffrire.
Lo farà certamente facendo leva sulle mie debolezze, sulle faccende psicologiche irrisolte che mi agitano (Altrimenti non potrebbe avere alcuna presa su di me).
Ad esempio potrebbe lavorare sulla mia vanità, creando nel tempo con molti complimenti uno stato di dipendenza psicologica nei suoi confronti. Dato che parla sempre così bene di me, voglio stare con lui più spesso che posso - per poi, a un certo punto, interrompere questo circolo positivo e scioccarmi con delle improvvise e aspre critiche che mi feriscono e abbattono. A questo punto dipendo da lui più che mai.
La quarta via a questo proposito è chiara e inequivocabile: dato che non posso in alcun modo influire sugli eventi esterni (tanto varrebbe prendermela con la pioggia improvvisa che mi ha bagnato tutti i vestiti e mi ha fatto arrivare in ritardo), devo lavorare sulla mia vanità. Di tutti gli elementi in gioco, è l’unico alla mia portata. Se riesco a separarmene, divento immune al veleno della persona “tossica” (e questa cessa di essere tossica ma ridiventa un poveraccio come tutti in preda alle sue incomprensioni. È la mia vanità a farlo tossico).
Incolpare la pioggia, incolpare il mio amico psicopatico, non serve a niente.
Desiderare che lui sia diverso da quello che è, è immaginazione. Significa rifiutare il presente, il modo in cui la realtà si presenta (Quando si parla di essere presenti al momento, non si indicano soltanto le situazioni in cui siamo in un prato fiorito e annusiamo una splendida rosa; ci riferiamo a tutti i momenti, anche quelli banali e a quelli difficili).
Penso che ci siamo scoperti tutti, una volta o l’altra, a urlare contro la pioggia che ci ha bagnato, al treno che è partito un attimo prima che potessimo toccarne la porta: “Tu, maledetta realtà, hai la colpa di cospirare contro di me, non dovrebbe essere così.”
Come ho scritto in passato, queste reazioni rabbiose sono dei respingenti, hanno la funzione di non permettermi di vedere la realtà. Nel momento in cui comincio a separarmi - a disconnettere il mio senso di identità - da questi, comincio a vedere molte cose che prima mi erano semplicemente invisibili.
La considerazione esterna mi permette di - finalmente - alzare gli occhi e dare uno sguardo all’altro.
Perché mi tormenta?
Attraverso quali meccanismi?
È così solo con me o anche con altri?
E come si manifesta con questi altri?
Con quali tipi di persone si innesca questa sua dinamica?
Voglio provare a comunicare o voglio allontanarmi?
E se voglio comunicare, come posso parlargli? Quali sono le parole, il tono, gli esempi, lo stato che hanno speranza di arrivare? È una strategia più intelligente urlare e accusare, o cercare di comprendere il suo punto di vista? (Il che è ben lontano dal giustificarlo). Far crescere la rabbia nella discussione o cercare di spogliarla per un momento del suo rovente contenuto emozionale?
Dire: “Tu fai sempre questo, maledetto!”
Oppure: “Non so se ti rendi conto, ma ad esempio ecco come mi fa sentire quando fai questo, ecco cosa provoca in me.”
Trovare le parole giuste per comunicare è un’arte, e richiede la capacità di non esprimere negatività. Provandoci e riprovandoci, si acquisterà padronanza, e le persone “tossiche” diminuiranno notevolmente, semplicemente perché avremo guadagnato maggiore immunità rispetto a molti veleni.
Nella maggior parte dei casi non riusciremo a cambiare l’altra persona. Ma, sempre, avremo imparato molte cose preziose sulla nostra macchina, su cosa la fa scattare, sui lati che possiamo migliorare per raggiungere la Liberazione. Finché permetto alla realtà di dimostrarsi tossica nei miei confronti, vuol dire che sono attaccato a delle zavorre di cui dovrei invece disfarmi.
Abu Bakhr:
“Il guerriero spirituale non ha nemici esterni.”
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