Ieri ho avuto una interessante conversazione con un amico studente riguardo una funzione della sofferenza, dove mi ha dato un’immagine illuminante. Non posso dire che non sapessi ciò che mi ha detto, tuttavia non era in me così chiaro come lui lo ha esposto.
La sofferenza è inerente al nostro posto nel mondo, al livello di esistenza che occupiamo nell’universo. Tutti, inevitabilmente, soffrono. Per chi è dedicato a un lavoro spirituale, tuttavia, la sofferenza può essere utilizzata per estrarre presenza.
Essendo il mio ‘centro di gravità’ nel cervello istintivo, ho sempre considerato la questione dal punto di vista dell’energia. Sotto forma di sofferenza riceviamo energia - diciamo se scopriamo di avere una malattia, se siamo in crisi col partner, o in difficoltà economica, o semplicemente se un’auto ci taglia la strada. Possiamo disperderla diventando negativi, o utilizzarla come carburante per ottenere uno stato.
Il mio amico ha però sottolineato che il lavoro sulle ‘macchina’, ovvero sui centri inferiori e sugli io, non ha impatto diretto su ciò che la quarta via chiama i ‘Centri Superiori‘, l’anima. Semplicemente rimuove ostacoli.
L’azione della sofferenza, se non respinta, inizia un processo di disgregazione del proprio io - del cosiddetto ‘ritratto immaginario‘.
Il ritratto immaginario ne esce in qualche modo umiliato, sempre di più, finché non è più possibile pensare a se stessi nella vecchia maniera. A quel punto, i molti io che rappresentano l’ostacolo alla presenza e la nostra forma di sonno, si fanno da parte, i Centri Superiori possono affacciarsi.
Ricordo un semplice episodio in cui volevo parcheggiare la mia macchina in una via larga e deserta. Ho accostato vicino al muro di una villetta. Immediatamente, il cancello della casa si è aperto e una agguerrita signora, accompagnata da tre cani dall’aspetto estremamente aggressivo, mi ha semplicemente detto: ”Lei qui non parcheggia.”
Ricordo di aver rapidamente valutato le mie opzioni. Il mio ritratto immaginario si è gonfiato al pensiero che avevo pieno diritto di parcheggiare lì, che la signora non poteva fare questo, che per parcheggiare altrove avrei rischiato ritardo al mio appuntamento di lavoro. Nel frattempo i tre cani, evidentemente addestrati ad attaccare, stavano davanti alle portiere, tesi e attenti. Semplicemente, non potevo uscire dalla macchina.
Me ne sono andato, sentendo il fuoco della rabbia. Dovevo ammettere a me stesso, non avevo scelta.
A quel punto, come il mio amico ha descritto ieri, comincia una lotta tra il tentativo di difendere l’io e l’abbandono del ritratto immaginario. Nel corso di quella giornata ho pensato diverse volte a come ‘punire’ la signora, fargliela pagare. Questo io era un tentativo di riaggregare il mio ego ferito.
Quell’io veniva dalla caratteristica di vanità e so faceva scudo del fatto di ‘avere ragione‘ come scusa per essere negativo e indugiare a lungo a rimuginare quell’episodio, invece di essere presente ai momenti successivi e semplicemente lasciar cadere in fretta quella sgradevole esperienza. Per questo, a volte uno studente deve abbracciare una sofferenza dietro l’altra, sempre maggiori finché non ci si arrende.
Come disse il poeta Milton, “Non discuto la mano del Cielo.” In questo modo si comincia a capire che certi eventi che sembrano una punizione divina sono in realtà una medicina amara ma necessaria, in grado di portarci in posti dove da soli non saremmo mai in grado di andare. Da soli non si ha possibilità di riuscire perché è proprio da se stessi che occorre liberarsi.
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