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Una leggenda su Hafiz

  • Immagine del redattore: Il Ricordo di Sé
    Il Ricordo di Sé
  • 22 ott
  • Tempo di lettura: 3 min
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Tra i numerosi poeti che il mio maestro ha indicato come uomini consci, ovvero esseri risvegliati - Omero, Dante, Whitman e altri - il persiano Hafiz ha un posto speciale nel mio cuore.


Forse perché, in un certo senso, non lo capisco: i suoi distici sono costruiti in modo da confondere, sconcertare; aggiungono dubbi invece di toglierne.


Ironicamente, Hafiz è conosciuto attraverso traduzioni semplificate, carezzevoli, facili alla lettura, ma così lontane dall’originale da non poter essere nemmeno chiamate traduzioni. I suoi poemi originali rimangono trappole, ragnatele in cui si rimane invischiati.

Come spesso accade in ambito persiano, della persona si sa poco, e questo poco sembra prevalentemente costituito da leggende: e proprio una di queste leggende oggi voglio raccontare.


Da ragazzo, a causa della rovina economica della sua famiglia, Hafiz faceva il garzone di fornaio. Un giorno che era in giro a consegnare il pane, vide la bella Shakh-e-Nabat.

A Shiraz, all’epoca (siamo nel 1300) i diversi quartieri erano abitati da differenti etnie e religioni. Shakh-e-Nabat era turca. Per questo, quando si affacciò alla finestra, aveva il viso scoperto; e Hafiz se ne innamorò all’istante.


Se la bella turca di Shiraz volesse tenere in mano questo cuore

Per quello scuro neo offrirei Samarcanda e Buchara.


Sfortunatamente, la ragazza era già promessa a un uomo importante: nientedimeno che il Governatore della città.


Il poeta, sconsolato, si ricordò che vicino alla città si trovava una località detta Pir-e-Sabz, Il vecchio uomo verde. Si diceva che chiunque fosse stato capace di vegliare in quella località per quaranta notti senza mai chiudere occhio, avrebbe ottenuto qualsiasi cosa desiderasse.

Hafiz decise di provarci. Ogni sera, dopo il lavoro, invece di andare a dormire si recava a Pir-e-Sabz, e vegliava, inginocchiato, sulla tomba di un santo, il poeta e maestro Baba Kuhi.


Hafiz ricordava uno dei versi di questo antico maestro:

Al mercato e nel convento, ho visto solo Dio.

Nella valle e sopra il monte, ho visto solo DIo.

Con i miei occhi vedevo assai lontano,

Ma quando ho guardato con gli occhi di Dio, ho visto solo Dio.


Se fosse riuscito a vegliare per quaranta notti, Hafiz lo sentiva, anche se sembrava impossibile, in qualche modo misterioso la bella turca sarebbe stata sua.


Si accorse ben presto che l’impresa era oltre la capacità umana: già dalla prima notte rischiò più volte di cadere addormentato. Inginocchiato sul marmo, i pensieri che turbinavano nella sua mente diventavano immagini, e le immagini presto scivolavano verso il sogno. Ma resistette. Resistette una notte, due, dieci. E, infine, trentanove.


Al termine della trentanovesima notte, Hafiz si rialzò e prese a camminare verso casa. Stremato, gli occhi pesti, sconsolato, si imbatte nella bella Nabat.


“Io ti conosco. Dicono che ogni notte vegli davanti alla tomba del santo.”

“Sì.”

“Lo fai per me, vero”?

“Sì.”

“Qual è il tuo mestiere”?

“Poeta.”

“Fammi sentire una poesia”; e Hafiz così fece.

“Tu sei veramente un poeta”, disse la ragazza, commossa, dopo aver ascoltato. “Sono onorata del tuo amore. Non mi importa di essere promessa al Governatore, fuggiamo insieme.”

Hafiz rispose: “Ho ancora una notte da vegliare.” E si allontanò.


La notte successiva, il poeta aveva preso la sua risoluzione: voleva essere un poeta, voleva che i suoi versi, come prometteva la leggenda, giungessero fino ad Allah. E rinunciò alla bella Nabat. A tutt’oggi è usato come oracolo, e uno dei suoi attributi è La lingua dell’Invisibile.


Non vedete la correlazione col lavoro interiore? Il fatto è che il lavoro ci cambia. Ciò che desideravamo all’inizio del percorso, spesso scompare come nebbia. E appare qualcos’altro.


Lo dice bene il poeta Rilke, parlando del morire (a se stessi):


Certo è strano non abitare più sulla terra,

non più seguir costumi appena appresi,

alle rose e alle altre cose che hanno in sé una promessa

non dar significanza di futuro umano;

quel che eravamo in mani tanto, tanto ansiose

non esserlo più, e infine il proprio nome

abbandonarlo, come un balocco rotto.

Strano non desiderare quel che desideravi. Strano

quel che era collegato da rapporto

vederlo fluttuare, sciolto nello spazio.

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