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Immagine del redattoreIl Ricordo di Sé

Usare il tempo


Ancora una volta mi trovo in un aeroporto che, specialmente al mattino presto, mi appare come il tempio dell’immaginazione. Di fronte a me una donna seduta con gli occhi fissi e vacui, che è come avvolta in un guscio isolante da cui non sembra nemmeno percepire i movimenti davanti a lei.


È evidente che nel suo cervello si agitano immagini che non hanno nulla a che vedere col momento presente. Sogna, ricorda, spera, teme: rappresenta per me in questo momento il fiume dell’umanità inconscia, che da sempre si muove nel mondo, mai consapevole delle semplici cose che si trova davanti, rimanendo persa in ciò che chiamiamo i molti io, ovvero sogni di veglia, schegge causate da stimoli e associazioni sui quali non abbiamo alcun controllo.


Il mio stato fisico non è molto diverso, fatico a entrare in relazione con l’ambiente, sto provando a scuotermi con un tè caldo.


Gli aeroporti e gli aerei rappresentano per me uno shock che mi ricorda quale sia il mio lavoro di studente: quello di usare il tempo della mia vita per la presenza. Da questo punto di vista non esistono momenti morti, attese noiose: ogni sala d’attesa, ogni spazio in cui si sta ammassati, scomodi, assonnati ad aspettare un annuncio è un momento perfetto per provare ad essere intensamente consapevole che “Io sono.”

Ho parlato in un post recente di come sia utile avvantaggiarsi di impressioni alte, belle e interessanti, che forniscono uno stimolo prezioso per la presenza e una fonte inesauribile di elementi da percepire per rimanere agganciati al momento e non persi in una vuota introspezione. Ma anche in questa circostanza, che sembra non offrire aiuto esterno, sono attrezzato del mio bagaglio di scopi ed esercizi. La parte più nobile del mio centro emozionale mi può ricordare l’importanza della mia battaglia per la presenza, il suo essere questione di vita o di morte, di esistere o di non esistere.


Può ricordarmi che il mio tempo è estremamente limitato. Sono piuttosto certo che quando mi troverò sul letto di morte, un’attesa in aeroporto mi apparirà come un paradiso e un’opportunità preziosa. Può abbracciare il punto di vista che forze superiori mi hanno posto dove mi trovo, vogliono che sia esattamente in questo aereo, precisamente ora; esserne grato e provare a percepire tutto quello che il momento offre, ad esempio il poetico paesaggio nebbioso mentre l’aereo decolla, le persone accanto a me. Il centro emozionale può essere attivato intenzionalmente, è possibile. Può ricordarmi di scrivere un post che, chissà, sarà utile a qualcuno.


Gli atteggiamenti della nostra macchina possono essere modificati, piegati come fil di ferro in accordo col nostro scopo. Basta lasciar andare l’idea che le mie reazioni meccaniche sono naturali, necessarie e parte della mia identità profonda. Non lo sono: le ho interiorizzate meccanicamente, e posso sbarazzarmene intenzionalmente. Essere vivi è incredibile. Come possiamo dimenticarcene così spesso?

(Infine, gironzolando per l’aeroporto, mi imbatto in questa porta).

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